Ma non tanto epocale quanto quella subita nella poesia di Prévert dal figlio che, oltre a lasciare andare il padre da solo ad affrontare il leviatano, rifiuta ancora, al ritorno del genitore che si porta dietro una bella balena dagli occhi azzurri, di squartarla per servirgliela da mangiare. Il figlio butta per terra il coltello. E la balena, approfittandone, in un battibaleno pugnala il suo cacciatore, e lo infilza a mo’ di farfalla. Due volte il figlio rinnega il padre, e la seconda volta si fa artefice del suo assassinio: l’assassinio di quello che la balena pentita definisce subito un povero imbecille, nell’ambito di un'entomologia altrettanto povera.
Così mi sento, ogni volta che devo salire in macchina. Non come il padre infilzato da un coltello e pronto a dispiegare smaglianti quanto metaforiche ali, ma piuttosto come il figlio immorale, infame, disdicevole, che si ribella, che s’impenna, che dismette l’amor figliale e la solidarietà familiare, e che preferisce la quiete della casa alla grande avventura del difuori.
Eppure, quelle sconfinate distese che il mondo creato srotola all’infinito sono quanto ho di più caro, a patto di attraversarle con mezzi grandi, potenti, collettivi, nell’unione più o meno sudaticcia dei corpi, delle menti e degli interessi verso un traguardo comune che ci lega e ci associa brevemente. Pur di non dipendere da questo fragile quanto seducente guscio elettronico che senza remora l’estro del mercato associa ora alla genialità dell’artista, ora al fascino irresistibile della Dea. Varcare la soglia di casa, e non avere altra possibilità per muoversi nel mondo che la macchina, anche per comprarsi la baguette fresca e croustillante, tale è la maledizione del figlio del baleniere che, pur di evitare la macchina che è l’unico mezzo atto a portarlo fino all’attracco, si ribella all’autorità paterna. E così si sottrae spudoratamente al compimento del proprio destino, che avrebbe fatto senz’altro di lui un Ismaele, o un Achab. Una vergogna, quasi il giovane Bonaparte avesse rifiutato il comando dell’armata d’Italia per rimanersene ad Aiaccio a centellinare il mirto e giocare a briscola con i compagni di baldoria, intavolando interminabili smargiassate fino a notte fonda. Ma la battaglia d’Arcole? Ma Campoformio? Ma Jacopo Ortis? Ma la repubblica Cisalpina? Ma Il cinque maggio? Ma La Chartreuse de Parme? Niente. Un destino volgare. Un buco nell’acqua.
Eppure “il mondo è uno spazio infinito e fresco che inonda le cose di luce e le circonda di facilità”, scrive Bontempelli nell’esordio del romanzo che dedica nel 1932 alla macchina, e ad una in particolare, la 522 Fiat, che l’azienda torinese gli regalò a sugello del patto: Bontempelli era un eterno squattrinato. E in questo mondo reale e magico, quante città sfolgorano e rilucono, quante strade solcano grasse campagne e ombrose valli, quanti fiumi sgorgano e scorrono sotto la luce meridiana, quanti alberi cresciuti a branchi disordinati, o secondo una disposizione regolare. Quante nature in questo mondo. E quante città. E tra queste, di qua Paris, di là Bruxelles.
En voiture, donc!
Questo pezzo non l'ho scritto io. È il tema d'esame che mi ha consegnato François prima di salire sulla nostra macchina. Scritto in ottimo italiano. Ci accompagnerà per il prossimo tragitto.
On y va!
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