sabato 30 luglio 2016

Riportando tutti a casa

Quando arriviamo a Bologna è già notte, il valico di Sirio già spento (non la stella). Il centro storico ė spopolato ma inondato dal caldo. Il contachilometri ha superato i 5000. Bisogna scaricare la macchina e buttare via quel che resta (lattine e bottiglie, briciole, cartacce, penne, cappelli, alcol test inutilizzati, ipotesi di viaggio scartate). Bisogna ritrovare le abitudini, le presenze familiari. Bisogna ritrovare il sonno, sul proprio materasso, sfogliando pagine, lasciando scorrere le immagini. Ritrovare il piacere di stare fermi, almeno per un po'.
"La cultura es la sonrisa" - canta Leon Gieco: il pezzo scelto da Giovanni per salutarci.
"Blue is the color of my mind" - canterà Chris domani, sul prato di Cassanigo, tra filari di peschi e di peri, per salutarlo.

Traffic jam

Tempo di rientrare. Ma non senza aver fatto sperimentare ai bambini, per la prima volta, la spensieratezza di un ostello. E aver passeggiato nel centro di Monaco, intorno a Marienplatz. Altro memoriale ai piedi della statua: anche questa città ha conosciuto di recente il terrore. Ascoltiamo il carillon delle 12, con le figurine che ballano in ricordo della fine della peste: scampato pericolo. Nella piazza vicina, all'ombra dei castagni, mangiamo enormi Bretzel e Gurken salatissimi.
Rosie, l'amica di Anne che ci accompagna, spiega e racconta, alternando tedesco, inglese, italiano, francese. Una tedescaccia, come si definisce, con un'insolita, allegra vitalità. Ha superato gli ottanta ma non vive di ricordi. Sono i ricordi a rivivere attraverso di lei. Scopriamo da lei che tutti i bavaresi stanno per mettersi in macchina per raggiungere i luoghi di vacanza: in questo paese ordinato e produttivo, le vacanze (anche quelle scolastiche) si fanno a scaglioni. Capiamo subito che le decisioni dall'alto non riusciranno a impedire l'effetto traffic jam.
In coda fino al bivio Salisburgo-Innsbruck, osserviamo il passaggio degli stormi. Mi torna in mente una lezione di colleghi fisici, che paragonavano il traffico autoregolato ai movimenti spontanei e organizzati dal basso di uccelli e formiche: separazione e allineamento dei singoli, coesione del gruppo. Lasciare ai singoli l'iniziativa e la libertà di spostamento rende il traffico più fluido: come accade nelle rotonde rispetto agli incroci con semaforo. Ma per chi è inquadrato in un sistema di regole, la marcia diventa un riflesso. Le deviazioni e le infrazioni alla linea una minaccia al proprio comfort, oltre che alla sicurezza personale e collettiva.
Siamo ancora in Tedescania, chiede il piccolo? Dalla Baviera all'Austria la frontiera è invisibile: un grande pannello ci ricorda però che dobbiamo esporre la vignette, l'abbonamento che dà diritto (come in Svizzera) all'uso delle autostrade. Osserviamo il paesaggio: i campanili a pom-pom dei villaggi, i castelli perfettamente conservati (o rifatti) disseminati lungo la montagna. Penso alla dinamica tra esprit du clocher ed esprit d'intercourse che regola la vita delle lingue come quella delle comunità: il campanile e i crocicchi, l'identità e lo scambio.
Il confine con l'Italia, stavolta, non ha barriere naturali imponenti: solo 500 m di galleria sul Brennero. Anne nota i guardrail, che sembrano arrugginiti e invece no. Tra le barriere marroni, ritrovo le mie abitudini di guida. Mi sento più sciolta e padrona della strada, libera come sono di accelerare per inseguire una Ferrari o di accodarmi a una familiare stracarica. Ritroviamo gli autogrill frequenti, con toilette a libero accesso e caffè caffè. Ritroviamo la voglia di tornare a casa, dopo tanto viaggiare. "Restare a casa non ė lo stesso che ritornare a casa" - come recitava più o meno la scritta sovrastata da bottiglie sotto il ponte pedonale della stazione di Amsterdam. Ma questo anche Ulisse lo sapeva.


 
 
 
 
 

giovedì 28 luglio 2016

Baustelle

Lasciamo Admsterdam per scendere a sud. Più di 800 km di autostrada senza caselli prima di raggiungere Münich. Usciti dalla città, dopo Utrecht, un toponimo rivelatore: Breukelen. Perché, prima di diventare una nuova York, la città sul fiume oltre l'oceano era una nuova Amsterdam, con sobborghi annessi. Capisco ora quell'aria di famiglia, girando per le ciclabili ieri. Ritrovarsi dall'altra parte di Amsterdam, dove ti porta il traghetto gratuito, è come ritrovarsi nell'altra New York, oltrepassato il ponte di Brooklyn: case più alte che larghe, identiche facciate e backyard. Anne mi spiega che breuk in fiammingo vuol dire pantaloni. Penso alla parola jeans, che viene da Genova, come la tela di orbace dei camalli.
La frontiera tra Paesi Bassi e Germania è segnata da un diverso stile di guida: là rispetto dei limiti e sorpassi solo se necessari, qua apparentemente nessun limite e slalom tra le corsie (strettissime), come in Italia. La differenza traspare nelle aree di servizio: toilette a pagamento con i tornelli (si passa inserendo 70 centesimi oppure la carta di credito), defibrillatori ovunque (troppo sale e troppe salse nelle salsicce - dice Anne, che me li fa notare).
Ascoltiamo cd a rotazione. È la volta di Benjamin Biolay. Dico ad Anne che mi piace la sua voce. Lei: "Il a beaucoup écouté Gainsbourg". Cassé. Quando arriva De André, che lei non conosce, metto subito le mani avanti: "Il a beaucoup écouté Brassens". Ridiamo. E poi l'ultimo dei Baustelle (che vuol dire "lavori in corso" - come recitano anche i segnali sulla A3). Code su code, incolonnati fino a Colonia. "Specchio di pioggia e asfalto" - canta Cristina Donà.
Intorno scorrono cartelli che annunciano luoghi più o meno conosciuti: la Wuppertal di Pina Bausch, la Worms dei Nibelunghi, il paese natale di Gluck vicino a Norimberga. Memorie culturali non mediate da alcun commercio di amorosi sensi. Mi manca la lingua, soprattutto, per me oscura, affilata come un coltello.
Quando arriviamo a Monaco sono stanca e sopraffatta dalla vista delle torri (simboli fallici per eccellenza) erette dalle case automobilistiche. La gara ė tra le più potenti tra le tedesche: le stesse che,

 repotenti, ci sorpassavano senza segnalare il cambio di corsia. Nell'ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity, uno dei personaggi, il tedesco dell'Est Andreas Wolf, camminando per le strade della Berlino riunificata, si ferma davanti a una concessionaria della Bmw e chiede al suo amico americano:
- Che ne dici, Tom? Dovrei provare a desiderare una di queste macchine? Adesso che non c'è più l'Est, solo l'Ovest?
- Desiderarle è il tuo dovere di consumatore.
Andreas fissa spaventato "quelle macchine che promettevano il piacere di guidare", prima di mostrare il dito medio alle lustre Bmw, tenendolo alzato sopra la spalla mentre si allontana.

Inutile dire che non abbiamo visto DS, stavolta, lungo la strada. Altra "filosofia" di guida. Forse anche di vita.






 
 
 
 

mercoledì 27 luglio 2016

Guardrail

Mentre giriamo sotto la pioggia su un tandem a tre posti, il telefono si illumina di una luce breve. La vibrazione è un singhiozzo. Arrivano così, oggi, certe notizie.
E così te ne sei andato, alla fine, Giovanni, Zvan. Almeno posso piangere, che tanto le lacrime scendono sull'impermeabile verde, a confondersi col paesaggio. Così dirò, "come colui che piange e dice".
Tanto le parole, questa volta, ci sono: basta scegliere tra quelle che ci hai lasciato. In lingua, nel tuo dialetto, nell'amato tedesco. Penso al tuo corpo a corpo con le lingue (anche dal neerlandese, traducevi), a quello con la malattia. Penso alla tua voce sempre netta, vibrante, senza esitazioni: che si trattasse di prendere la parola in Consiglio, di declamare un testo alle feste, di ciacolare intorno a un tavolo (tu preferivi quelli quadrati) del Brirò.
Penso a una parola del tedesco che ho imparato da te: Heimatlosigkeit. La usavi per dire lo spaesamento integrale (di storia, memoria, territorio, animo, lingua). Una parola resistente, come te, come il tuo romagnolo.
È tempo di tirar fuori una poesia tua, che avevo annotato, e che mi accompagna. Si chiama Guardrail e inizia con "noi": pronome delle identità plurime (io ampliato, plurale inclusivo o esclusivo). Parola che ci àncora (ancòra) a un qui e ora, uno o tanti non importa.
Incollo insieme i pezzi sparsi di me per ascoltarti, ancora una volta.

nó ch’a stasen d’astê

che e’ disten

u s’ vegna incontra

cun un bês mai pruvê

d’j oc d’un culor mai vest

di cavél ros infunghì d’voia

a n’s’n’andasen brisa

ch’a pasen i dè

a zugher ’ e’ löt

a pruvê d’stachêr e’ cios

da i nöstar pen misrê

che sudór saibedgh d’s-ciân

ch’a j aven adös…



 firum ins un binéri

dentar a un vagon

senza ch’u l’cmânda incion

ch’e’ sól cvând ch’u i pêr a lò

a fê pasêr un Eurostar

a prenotazione obbligatoria

a pirden i nöstar dè

prenutê par nó da un étar

a ’spitê d’lezar

da un talafunì

ch’al letar ch’al s’dega

ch’a j aven vent

un étr incontrar cun e’ disten

e incion a scrivas mai…

noi che siamo in attesa / che il destino / ci venga incontro / con un bacio mai provato / occhi di un colore mai visto / capelli rossi infuocati di desiderio / non ce ne accorgiamo / che passiamo i giorni / a giocare al lotto / a tentare di staccare il lezzo / dai nostri panni fradici / il sudore selvatico di umano / che abbiamo addosso…

fermi su un binario / dentro a un vagone / senza nessuno che lo guidi / che va soltanto quando pare a lui / a far passare un Eurostar / a prenotazione obbligatoria / perdiamo i nostri giorni / prenotati per noi da un altro / ad aspettare di leggere / da un cellulare / quelle lettere che ci dicano / che abbiamo vinto / un altro incontro col destino / e nessuno a scriverci mai…

(G. Nadiani, Guardrail, Ancona, Pequod, 2010, pp. 34-35).
 

La patente

Da Bruxelles ad Amterdam la nostra compagna di viaggio è Anne. Anche lei ha un amore antico e coltivato per l'Italia, in cui ha trascorso tutte le sue estati da bambina, e per la nostra lingua, che si sforza di tradurre. Anche lei ha fatto a meno della macchina per buona parte della sua vita. Finché non ha deciso di prendere la patente. Come tutti i neofiti, e a differenza di chi si affida sans soucis alla guida altrui (non avendo sperimentato in prima persona i pericoli della strada), è attentissima alla segnaletica e alle variazioni di velocità. Come ogni belga, riesce a decifrare anche le scritte in neerlandese che rendono per me oscuri perfino i nomi di città che dovrei conoscere, almeno sulla carta: Antwerpn, Anversa.
In Belgio e nei Paesi Bassi le autostrade sono gratuite. Nessuna barriera. Neppure linguistica. Cambia il paesaggio, diversamente antropizzato (compaiono i mulini a vento). Cambia il cielo (il grande cielo olandese - come dice Anne). Anche l'impatto col paesaggio urbano è diverso. Entriamo gradualmente in sobborghi dalle lunghe teorie di case basse che corrono unitarie. Kastelenstraat è l'indirizzo che dobbiamo raggiungere. La casa di una famiglia come la nostra, ma più luminosa e ordinata (perché meno affollata di oggetti). Partiti in vacanza in direzione opposta. I bambini sono curiosi di scoprire le tracce della presenza di Elfie e di Pijke, sempre sorridenti nelle foto alle pareti che testimoniano la loro crescita (o invecchiamento, dipende dai punti di vista).
Un tram ci porta in mezz'ora nel centro di una città che non conosciamo, e che scopriamo perdendoci. Finché non decidiamo di concederci un giro per i canali, su una piccola chiatta silenziosa che ci porta lontano dai quartieri degli eccessi, alla scoperta di viste e particolari che animano i quadri di Rembrandt. Io, con quel che resta dei ricordi dell'esame per la patente nautica, provo a decifrare i segnali di navigazione, i messaggi scambiati via radio in prossimità dei ponti, i saluti di cortesia quando ci incrocia, anche se non ci si conosce (come nelle strade di Irlanda, quando ci si dà la precedenza).
Questa volta non riusciremo a visitare musei. Ma domani prenderemo una bicicletta e gireremo. Tra ponti che sovrastano le vie d'acqua e le strade carreggiate in cui le macchine avanzano in punta di ruota, quasi scusandosi della loro invadenza.
 
 
 

martedì 26 luglio 2016

Half & half

I bambini amano ritrovarsi nelle città in cui sono stati, ritrovare dettagli che li hanno colpiti. A Bruxelles vogliono andare a vedere se il gatto rosso Mousti è sempre disteso sulle panche del Cirio, la storica brasserie accanto alla Bourse. Anch'io sono contenta di ritrovare l'anziano cameriere dalla pronuncia belga, le monumentali toilettes art nouveau, l'eccellente insalata di avocado e gamberetti grigi, e soprattutto l'impareggiabile half&half, che si beve solo qui: per metà vino fermo e per metà spumante.
Se a Paris avevamo sperimentato il piacere di  chiner, andare per mercatini di anticaglie (brocante), qui indugiamo tra gli scaffali delle librerie. Da Pêle-mêle c'è un'ampia scelta di libri usati, anche in italiano, anche per bambini. E poi c'è Tropismes, la libreria storica nel cuore della galerie de la Reine, che divide il nome con un prezioso libro di scritture brevi di Nathalie Sarraute.
I tropismi sono oscillazioni interiori: "movimenti impercettibili, che scivolano velocemente ai limiti della nostra coscienza; sono all'origine dei nostri gesti, delle nostre parole, dei sentimenti che manifestiamo, di quelli che crediamo di provare e che riusciamo a definire".
Oggi ė una giornata così: il pendolo delle emozioni oscilla, i ricordi si affacciano, qualche crepa si insinua. Tristi tropismi. Journal de deuil di Roland Barthes la lettura che mi accompagna nel sonno.





 

lunedì 25 luglio 2016

Paris est une fête

Mentre noi risaliamo in macchina per lasciare Paris, la città si anima per accogliere l'arrivo del Tour de France. Le strade, la domenica mattina, sono vuote. Vivement dimanche è il titolo di un programma televisivo francese giunto al capolinea (l'equivalente del nostro Domenica in) che nessun parigino rimpiangerà. Solo taxi e bus e negozi ancora chiusi, oggi, mentre ci avviciniamo al Champ de Mars per una foto di rito con la Tour sullo sfondo. Al posto dei dos d'âne, in città ci sono i gendarmes couchés, dossi più stretti e insidiosi che obbligano a rallentare. Arrivati ai quai, una folla di gendarmi in carne e ossa cerca di deviare il traffico, senza preoccuparsi di regolarlo. Ponti chiusi dall'Alma al Louvre, a protezione del Tour. Così sperimentiamo il bouchon: il tappo, l'ingorgo. Spengo il navigatore impazzito, che insiste nell'indicarci varchi chiusi da camionette con vigili in uniforme e militari in assetto da guerra. Perché ogni festa, ormai, è diventata una minaccia alla sicurezza nazionale. Anche per scendere ieri a Paris plage, la spiaggia allestita come ogni anno (comme si de rien n'était) sulle rive del fiume, era obbligatorio superare i controlli di sicurezza, accettare di passeggiare sui quai, di giocare alla pétanque, di lanciarsi in una guinguette sotto lo sguardo di nerboruti in tenuta antisommossa.
Una mia inversione a U innervosisce la polizia che, sospettosa, mi obbliga a fermarmi e mi apostrofa (m'engueule) con dei poco gentili "Merde" e "Putain", usati in realtà come intercalari, ma abbastanza trasparenti da lasciare i bambini allibiti. Siamo turisti, non terroristi. Tant pis, on va faire un détour. Torniamo indietro verso Saint-Germain e attendiamo pazienti a Saint-Michel che arrivi il nostro turno. Perché l'arrivo dei corridori in bicicletta è previsto per le 18, ma alle 12 è previsto l'arrivo delle corritrici: il Tour de France al femminile.
À mon tour, arrivo al carrefour dello Châtelet, davanti al bistrot con le panche di pelle verde su cui eravamo seduti ieri a pranzo, intenti a contare le altre DS 3, 4 e 5 che passavano. Più di 20 in un'ora: concludiamo che trattasi di vetture cittadine, un'alternativa chic alle cugine di campagna (Citroën C3, C4 e C5). La conferma l'avremo passando davanti al DS store, il primo negozio monomarca ad aver aperto, qui a Paris, dopo il lancio del marchio: eleganza in nero, con cordoni dai sostegni dorati all'accueil, come nelle grandi boutique del Triangle d'or sugli Champs-Elysées.
A naso, riesco a infilarmi in una stradina dietro rue st. Honoré: il tempo di sbirciare da una curva il passaggio di un fiume di ruote incalzate da applausi e clacson. Poi è la volta di Place de la République, col suo memoriale laico ai piedi della Marianne e gli alberi piantati in memoria delle vittime degli attentati di gennaio. Siamo già, enfin, nell'11o. Da rue Oberkampf raggiungiamo Avenue Parmentier per caricare il nostro compagno di viaggio.
Imboccata rue des Flandres, ci dirigiamo verso la A6. Prima di arrivare al confine, attraversiamo terre di cattedrali con le volte a ogiva, case coi tetti a spiovente, fitti boschi au bord de la route, il solito traffico ordinato, pannelli luminosi che invitano ironicamente alla concentrazione alla guida: "Un appel? La secretaire répond". Passata la terra dei géants, i grandi pupazzi che animano le feste popolari nelle città del nord, superiamo la frontiera quasi senza accorgercene: nessuna barriera, solo i cartelli che cambiano posizione e formato. Penso a un'altra frontiera invisibile che ogni volta mi colpisce, quando viaggiamo in autostrada verso il Brennero, destinazione vacanze sulla neve: i guardrail che cambiano colore. Perché in Trentino all'acciao zincato si preferisce l'acciaio Corten,
color marrone, più resistente alla ruggine, più simile al legno, di cui simula le nuance.
Anche in questo caso arriviamo in una terra bilingue dall'identità indecisa. Ma Bruxelles è un'isola nel cuore di un'Europa piena di crepe. Alle 8 di sera il sole è ancora alto.
Dopo aver parcheggiato sotto casa di Anne, nel cuore del quartiere art nouveau di Saint Gilles, avremo ancora tempo per sederci ai tavoli della Maison du Peuple, sul Parvis, e bere una birra offertaci da Frank, per poi andar a cercare le frites alla Barrière. Birra, patatine fritte, cioccolata da gourmet e retrouvailles con gli amici. Basta poco, certe volte, per sentirsi felici.

 
 
 
 
 

domenica 24 luglio 2016

La pêche à la baleine

Ogni volta che salgo in macchina, mi sento risuonare tra scatola cranica e cielo — ma un cielo di convenzione come quelli dipinti sui teli dei teatri, o come quello vuoto su cui si muove la nuvoletta del marchand de sable che da me non passava mai —, ogni volta mi sento risuonare come un urlo, un monito, e come la voce irosa del padre nella poesia di Jacques Prévert che grida al figlio: À la pêche à la baleine! Un ordine, un'ingiunzione a cui il figlio si sottrae lagnoso nascondendosi sotto l’armadio. E, tirandosi decisamente indietro, ribatte che non capisce perché mai dovrebbe andare a pescare un animale che non gli ha fatto niente. Petizione di principio questa, a cui il lettore contemporaneo può solo aderire, senza bisogno di esser andato ad osservare i grandi cetacei nel loro ambiente naturale in un whale watching al largo di qualche terra esotica: ma può ancora l’Islanda essere considerata una terra esotica, dopo che abbiamo visto ai primi di luglio le strade di Parigi gremite di islandesi insolitamente estroversi, talvolta assatanati, che sbandieravano la loro cittadinanza come segno di appartenenza a un popolo eletto? Una volta, a Parigi, gli islandesi si riconoscevano al massimo per la loro insistenza a togliersi le scarpe quando ti entravano in casa, come costuma sulla loro isola, dove chi torna a casa proviene perlopiù da un ghiacciaio, dal cratere di un vulcano in eruzione, dal ponte di coperta di una baleniera o di un peschereccio, o dal Blue Lagoon. Abbiamo appena vissuto una svolta epocale, è evidente.
Ma non tanto epocale quanto quella subita nella poesia di Prévert dal figlio che, oltre a lasciare andare il padre da solo ad affrontare il leviatano, rifiuta ancora, al ritorno del genitore che si porta dietro una bella balena dagli occhi azzurri, di squartarla per servirgliela da mangiare. Il figlio butta per terra il coltello. E la balena, approfittandone, in un battibaleno pugnala il suo cacciatore, e lo infilza a mo’ di farfalla. Due volte il figlio rinnega il padre, e la seconda volta si fa artefice del suo assassinio: l’assassinio di quello che la balena pentita definisce subito un povero imbecille, nell’ambito di un'entomologia altrettanto povera.
Così mi sento, ogni volta che devo salire in macchina. Non come il padre infilzato da un coltello e pronto a dispiegare smaglianti quanto metaforiche ali, ma piuttosto come il figlio immorale, infame, disdicevole, che si ribella, che s’impenna, che dismette l’amor figliale e la solidarietà familiare, e che preferisce la quiete della casa alla grande avventura del difuori.
Eppure, quelle sconfinate distese che il mondo creato srotola all’infinito sono quanto ho di più caro, a patto di attraversarle con mezzi grandi, potenti, collettivi, nell’unione più o meno sudaticcia dei corpi, delle menti e degli interessi verso un traguardo comune che ci lega e ci associa brevemente. Pur di non dipendere da questo fragile quanto seducente guscio elettronico che senza remora l’estro del mercato associa ora alla genialità dell’artista, ora al fascino irresistibile della Dea. Varcare la soglia di casa, e non avere altra possibilità per muoversi nel mondo che la macchina, anche per comprarsi la baguette fresca e croustillante, tale è la maledizione del figlio del baleniere che, pur di evitare la macchina che è l’unico mezzo atto a portarlo fino all’attracco, si ribella all’autorità paterna. E così si sottrae spudoratamente al compimento del proprio destino, che avrebbe fatto senz’altro di lui un Ismaele, o un Achab. Una vergogna, quasi il giovane Bonaparte avesse rifiutato il comando dell’armata d’Italia per rimanersene ad Aiaccio a centellinare il mirto e giocare a briscola con i compagni di baldoria, intavolando interminabili smargiassate fino a notte fonda. Ma la battaglia d’Arcole? Ma Campoformio? Ma Jacopo Ortis? Ma la repubblica Cisalpina? Ma Il cinque maggio? Ma La Chartreuse de Parme? Niente. Un destino volgare. Un buco nell’acqua.
Eppure “il mondo è uno spazio infinito e fresco che inonda le cose di luce e le circonda di facilità”, scrive Bontempelli nell’esordio del romanzo che dedica nel 1932 alla macchina, e ad una in particolare, la 522 Fiat, che l’azienda torinese gli regalò a sugello del patto: Bontempelli era un eterno squattrinato. E in questo mondo reale e magico, quante città sfolgorano e rilucono, quante strade solcano grasse campagne e ombrose valli, quanti fiumi sgorgano e scorrono sotto la luce meridiana, quanti alberi cresciuti a branchi disordinati, o secondo una disposizione regolare. Quante nature in questo mondo. E quante città. E tra queste, di qua Paris, di là Bruxelles.
En voiture, donc!

Questo pezzo non l'ho scritto io. È il tema d'esame che mi ha consegnato François prima di salire sulla nostra macchina. Scritto in ottimo italiano. Ci accompagnerà per il prossimo tragitto.
On y va!

sabato 23 luglio 2016

Sages comme des images

La mamma italiana in viaggio si muove sempre circospetta, temendo che gli astanti identifichino la nazionalità dei propri figli prima ancora che abbiano aperto bocca. In Francia, poi, si rischia sempre la honte. Perché qui si hanno molto chiare su come i bambini vadano educati, e su come debba essere (o almeno presentarsi in società) un bambino beneducato (bien élevé): non solo saluta per primo gli adulti (potere del BAM: Bonjour-Au revoir-Merci) e porge la guancia a ogni bisou, ma non interrompe gli adulti mentre parlano. Anzi, evita di sedersi a tavola con loro per non disturbarli, mangia la sua soupe senza capricci (e guai a giocare col cibo: quelle bêtise, una bestialità), impara prestissimo ad addormentarsi senza troppe storie alle 8 di sera per lasciarli in pace. Con gran sollievo della maman, che può tornare in tempi record in forma, al lavoro e alle uscite di coppia o entre copines.
Qualche anno fa, il libro di una giornalista americana trasferitasi a Parigi, Pamela Druckerman, ha trasformato gli stereotipi dell'educazione alla francese in una sorta di decalogo. Per smontare col sorriso le preoccupazioni della mia amica neomamma di stanza a Parigi, ho scritto per lei un decalogo della mamma italiana, che ripasso per ritrovare l'orgoglio della differenza.

1. La Mamma non si preoccupa di viziare la figliolanza, né di inquadrarla in un sistema di regole a beneficio della comunità: per prima cosa ama, e lo fa in modo esclusivo, incondizionato, pieno di tenerezza e apprensione.
2. La Mamma è generosa fino al sacrificio di sé. Vive l'oggi costruendo il domani della figliolanza, incurante delle leggi della reciprocità.
3. La Mamma, succeda quel che succeda, mette la figliolanza a tavola tre volte al giorno. Nutre a richiesta, svezza con brodo di verdure fresche o con omogeneizzati fatti in casa, in modo che la figliolanza arrivi all'anno pronta per sedere a tavola con gli adulti, interrompendoli all'occorrenza (perché a tavola si parla, specie di cibo). Continua imperterrita a preparare due o più pietanze a pasto (con affettato fresco sempre in panchina), arrivando a congelarle per rifornire la figliolanza fuorisede (perché alla partita della vita ci si prepara mangiando).
 4. La Mamma dà enorme importanza alla prossemica: per questo le capita di urlare alla figliolanza di non urlare (in modo da rinforzare il messaggio). Dà le tottò al tavolo cattivo e alla brutta altalena pur di non minare l'autostima della figliolanza che si inzucca. Sotto il 43o parallelo, rinforza il baby talk con l'allocuzione inversa (chiama la figliolanza (a) mamma o mammina) per ribadire il primato dei ruoli familiari.
5. La Mamma cerca di insegnare la buona educazione con l'esempio, evitando di fare della figliolanza un branco di scimmiette ammaestrate. Ovviamente, ogni tanto le capita di dare il cattivo esempio, ma lo fa nella segreta speranza di essere ripresa e non certo imitata. Così facendo, del resto, prepara la figliolanza all'impatto con la società (com'è noto, le parolacce e le cattive abitudini i bambini le imparano per strada e a scuola, mica in casa).
6. La Mamma cura l'abbigliamento della figliolanza come fa per sé stessa, cercando di interpretarne (o di orientarne) il carattere. Distingue il dentro dal fuori, concedendosi e concedendo di stare in tuta e scarpe da ginnastica quando c'è da star comodi.
7. La Mamma, potendo, sta (o dice di stare) con la figliolanza perché sa che meglio di lei non sa fare nessuno. Porta la figliolanza all'asilo il più tardi possibile e a malincuore perché sa che l'autonomia si acquisisce solo a partire da una base sicura. Affida la figliolanza alla famiglia di origine non per opportunismo, ma per sopperire alle carenze del welfare e per favorire un rapporto coi nonni che entri a far parte del patrimonio interiore della figliolanza.
8. La Mamma non si cura di attraversare la città e di fare carte false per mandare la figliolanza alle migliori scuole o attività ricreative.
9. La Mamma non ha il mito della coppia, ma della famiglia. Non ha il culto della magrezza, ma della femminilità. Segue naturalmente il buon gusto, come altri il buon senso.
10. La mamma italiana è quella che invidia le altre mamme europee (le sembrano tutte più brave e rilassate di lei), è la più criticata dalle mamme europee (anche per cose banali come l'uso della canottiera, il cambio del costumino bagnato, il farsi carico di zaini e cartelle della figliolanza), ma è quella di cui tutti vorrebbero essere (o rimanere) figli.


 
 
 
 

Les bons plans

Gli amici parigini hanno sempre, per definizione, delle dritte da darti. Sono strateghi della pianificazione, dell'organizzazione, dell'emploi du temps. Sanno sempre qual è l'indirizzo incontournable, il nuovo locale branché, lo spettacolo à la une. E se il francese medio dà la sensazione voler tenere tutto per sé, indirizzi compresi, il parigino e la parigina sono sempre prodighi di buoni consigli. Poi "chacun a ses coins", e anch'io ho i miei: piccoli musei (come quello de la vie romantique, o il Jacquemart-André), vecchie librerie, mercerie e negozi di tessuti, profumerie artigianali, boulangerie da concorso, fioristi d'eccezione, bistrot e bouillon, cinema d'essai. Qui anch'io, caotica come sono, ritrovo i tempi e i modi di un art de vivre, un confort ambiant che - pur nell'esiguità degli interni, prolungati dalla terrasse dei café (il nostro dehors) - rimane un dato di partenza e di fatto. Perfino il cielo di zinco, che si confonde coi tetti, mi fa sentire bien dans ma peau.
Mi chiedo che cosa produca in me questo effetto. La bellezza artistica ("il y a toujours de belles choses par-là" - ci dice la sorvegliante del Louvre in risposta a una mia domanda infantile), il potere del jadis (le rose che non colsi nel Jardin du Palais Royal), la mia disponibilità di tempo e l'insouciance (data dalla vacanza, come un tempo dalla condizione di intéllo precaire), la quantità di merci desiderabili (l'ennesima petite robe noire, la cancelleria d'antan, gli oggetti di decorazione, gli outils da cucina, qualche breloque non troppo bling-bling, un inedito cappello).
"Nel loro mondo era normale desiderare sempre più di quanto si potesse acquistare" - scriveva  Perec nel romanzo Les choses (1965), mettendo a fuoco la relazione di complicità narcisistica che si crea nella coppia attraverso un "sistema di oggetti". Anticipando quanto ė oggi sotto gli occhi di tutti: gli oggetti di consumo (compresi i viaggi, gli animali da compagnia, in taluni casi perfino la prole) come alimento delle relazioni sentimentali e familiari, e le relazioni come quadro per il consumo di oggetti. Brutale? Forse. Ma è quanto vedo intorno a me: persone che lavorano duro, rimandando i grandi progetti al momento in cui potranno godere della meritata ricchezza; e quelli come Jérôme e Sylvie - come me anche - che vogliono vivere bene ora, godendo della propria libertà e di una relativa (magari solo presunta) indipendenza di pensiero.
E comunque. "Vous avez trouvé votre bonheur?" - mi chiede complice la commessa di Agnès B. "Oui, comme d'habitude", le rispondo con un sorriso, dirigendomi verso la cassa. I bambini, che ho allenato duramente a dire "Bonjour/Au revoir Monsieur/Madame" (il fondamento della politesse e la garanzia di rapporti sereni tra le generazioni), nonché a tenere aperta la porta dietro di sé quando si esce dai luoghi pubblici, questa volta fanno cilecca: il piccolo, stanco, chiude con un esilarante "Bonne nuit, à demain". E la pronuncia, più che da Marie-Chantal, è da 'gnora Marì.
Add'mà. Avvù sossì.



 

venerdì 22 luglio 2016

Le grand escargot

Paris, in francese, è un nome maschile. Il nome comune città, ville, è femminile, ma il nome proprio è maschile: la ville lumière, ma le tout Paris. Io amo Parigi con la stessa intensità e le stesse contraddizioni con cui ho amato gli uomini della mia vita. La nostra storia è durata due anni. Due anni divisi tra il lavoro in un Labo de Linguistique del CNRS durante la settimana (métro-boulot-dodo) e i vagabondaggi a piedi per la città nel fine settimana. Quartiere dopo quartiere, la Reflex al collo. Quasi tutto quello che so di Paris l'ho imparato e fotografato in quegli anni.
Sono passati 12 anni e ogni volta che torno lo ritrovo un po' cambiato, ma posso ancora girarlo senza cartine alla mano, ricordando le stazioni di métro e i numeri dei bus dai tragitti più suggestivi (il 67, per esempio, la linea rosa che attraversa la città da Montmartre al Jardin des Plantes, passando per l'Ile Saint-Louis).
Ogni volta la flânerie torna a impossessarsi di me e io mi perdo nelle strade e nei passages (raccontati da Walter Benjamin) dimenticandomi della fatica del vivere. Tutte le volte mi chiedo se potrei tornare ad abitarci, ora che la mia vita è cambiata, con i bambini e tutto il resto. Tutte le volte mi torna in mente una frase del poeta americano John Ashbury, trovata in uno dei tanti libri su Paris coi quali, negli anni, ho cercato di colmare la distanza: "Essere vissuto a Parigi rende impossibile vivere in qualsiasi altro posto. Parigi compresa".
Ogni volta che torno coi bambini, però, scopro cose nuove che non avevo notato, o ne guardo altre con occhi diversi. I giardini pubblici, per esempio, ciascuno col suo bac à sable in cui si può giocare con secchielli e palette, e poi strutture di ogni genere per arrampicarsi, ma anche giochi dimenticati da fare a terra, come la Marelle (campana), 1,2,3 Soleil (1,2,3 stella), Twister. Non si trovano altalene (bandite per ragioni di sicurezza) ma non manca mai il dondolo.
Oggi, La Bambina in prestito nel passeggino, abbiamo vagato tra i parchi e giardini tra il 13o, il 5o e il 6o arrondissment. Dopo il giardino accanto alla casa di Elena e Fred, è stata la volta del Luco (le Luxembourg), uno dei miei preferiti: un giardino per adulti, in realtà, se non fosse per il teatro delle Marionnettes. Ogni volta mi incanto ai riflessi della Fontaine des Médicis, alla vista delle sedie a sdraio in ferro, di un verde sbiadito, intorno al bassin centrale. Una volta addormentata la piccola, risaliamo verso il Pantheon e scendiamo dalla Mouffe (la rue Mouffetard). Svoltando a destra, si raggiunge la grande Mosquée (col suo Hammam e il thé à la menthe coi dolcetti orientali) e uno degli accessi al Jardin des Plantes, il preferito dei bambini: per le serre, il labirinto, la ménagerie (un piccolo zoo), il museo con i dinosauri.
Al ritorno, riconsegnata La Bambina, raduniamo le nostre cose e ci dirigiamo verso la casa dell'altra fata-madrina. Questa volta varchiamo la Senna per arrivare nel 2o arrondissment, nel cuore antico e commerciale della città: rue Montorgueil, non lontano dalle vecchie Halles, oggi rinnovate. La canopée, la struttura in vetro da poco ultimata che le ricopre, riverbera al tramonto.
La vera novità, questa volta, non è tanto la destinazione, ma il mezzo di trasporto. Elena ci ha prenotato un Uber. Un elegante e giovane Mohammed, arrivato in 3 minuti su una Mercedes classe C, viene ad aprirci la porta, carica le nostre borse, ci fa accomodare mostrandoci le bottigliette d'acqua e le caramelle a disposizione. Ci chiede se preferiamo l'aria condizionata o i finestrini aperti e, soprattutto, ci chiede di noi e ci racconta di sé. Cresciuto fino a 6 anni a Genova, ha un ricordo dolcissimo della nostra lingua. Ci dice che ha cominciato da poco a fare questo lavoro, insieme al fratello, per pagarsi gli studi di Economia. E che, facendolo, ha scoperto una città di cui prima, da ragazzo di cité,  non conosceva che gli snodi di scambio o le strade del lusso (in cui tanti, diversi da noi, gli chiedono di essere accompagnati).
Parliamo insieme dei lati di Paris: il sopra e il sotto (rive gauche e rive droite), un tempo più nettamente distinte (sotto, i luoghi della cultura, simboleggiati dalla Sorbonne; sopra, gli affari, simboleggiati dalla Bourse); la destra e la sinistra: l'est più popolare (con immeubles più modesti e una maggiore concentrazione di HLM o logements sociaux) e l'ovest più ricco (coi gli hôtels particuliers e le grandi avenues), oggi rimescolati dalla gentrificazione.
Concordiamo sul fatto che la memoria architettonica è più solida degli usages de la ville, che cambiano in fretta. Lui mi fa notare che Parigi sta cercando comunque di rifarsi il maquillage, per attrarre più turisti, da quando New York le ha sottratto il primato della città più visitata al mondo. Gli dico che ammiro la sua curiosità culturale. Mi risponde che la sua è una curiosità etica. E io non posso fare a meno di apprezzare la sua eleganza, anche verbale.
Quando ci lascia in rue du St. Sauveur, i bambini si sono addormentati. Per salire al terzo piano senza ascensore su una delle scale strette a chiocciola che ci portano all'appartamento al 3o piano sono costretta a svegliarli.
Salendo parliamo delle chiocciole francesi, les escargots. A Mâcon siamo riusciti ad aggirare  l'assaggio delle famose lumache alla borgognona. Ridiamo del fatto che gli italiani, da lontano, chiamassero i francesi "mangiatori di lumache". (I francesi, per parte loro, chiamano gli italiani che vivono in Francia ritals, che non è un complimento). Apro il plan, la mappa di  Paris,  per mostrare dove siamo: seguendo la numerazione dei quartieri si accorgono da soli che l'intera Parigi è una grande lumaca,  un grand escargot: i numeri degli arrondissment sono disposti a spirale, dal centro verso la periferia. La coda, il 20o, è a est. La testa della lumaca a ovest, in corrispondenza del Jardin d'acclimatation, altro luogo che amano, e che amo anch'io da quando posso guardare il grande veliero in vetro costruito da Frank Gehry per la Fondation Louis Vuitton (l'unica cosa che mi interessi del  marchio Vuitton).
Siamo stanchi e affamati. Scenderemo a prenderci una galette o un croque-Monsieur/Madame. Domani destinazione Louvre, ala antiche civilità; facciamo il biglietto online prima di addormentarci. E poi saliremo in cima alla torre Saint-Jacques, finalmente visitabile: da lassù scopriranno che Paris era una mandorla (amande) in origine. Dalla mandorla dell'île de la Cité a quella più ampia disegnata dalle mura di Filippo Augusto: dal Louvre alla chiesa di Saint Paul. E noi saremo al centro dell'occhio, con una vista aperta sull'intera città, fino al cerchio nuovo dei boulevards peripheriques.




 
 


 

 


giovedì 21 luglio 2016

Paesaggio mobile

"Mai come nella nostra epoca l'uomo è vissuto in un paesaggio mobile. Nel giro di vent'anni una costa solitaria può trasformarsi in un vivaio umano, una radura alpina in un centro termale, avvolto dai fili delle teleferiche e delle funivie. Gli uomini hanno sempre collaborato con la natura nel modellare il paesaggio, abbattendo foreste, deviando fiumi, sventrando montagne, annientando specie animali, addomesticandone altre.
Qual è allora la differenza tra oggi e ieri? È il tempo della metamorfosi, che allora esigeva l'apporto di più generazioni, mentre ora l'uomo, nel corso della sua, può vedere più volte il paesaggio cambiare volto, fino a non riconoscerlo più e rifiutarlo. Una volta riuscivano a tanto solo le forze devastanti della natura, i terremoti, le meteore, le inondazioni, il fuoco: e gli uomini potevano ricorrere solo all'ultima, al fuoco, per completare in modo definitivo quello che le armi avevano cominciato. Ferro ignique... Ma ad altri mezzi artificiali approntati dalla modernità si deve oggi il sovvertimento del paesaggio planetario: mezzi esplosivi di terrificante efficacia, mezzi chimici di inquinamento immediato e di desertificazione differita. L'ultimo contributo umano alle mutazioni del paesaggio è l'effetto serra con il riscaldamento dell'atmosfera e dei mari.
L'aspetto più paradossale e sinistro della rivoluzione paesaggistica italiana è che la distruzione è stata non compensata, ma raddoppiata da un'operazione simmetrica e opposta: la ricostruzione. Quest'ultima, nel dopoguerra, ė stata promossa e diretta - contrariamente a quanto pensano quelli che non l'hanno vissuta - non dalle generazioni più giovani, ma da quelle che detenevano il potere politico, economico e culturale. E mai ricostruzione ė stata più distruttiva.
Sono gli anziani a detestare il passato prossimo che li ha delusi e a delirare per un futuro che li risarcisca. E sono i giovani, per ragioni analoghe ma rovesciate, a temere un futuro che non conoscono e a rimpiangere un passato che non hanno conosciuto. I vecchi proprietari - dai contadini nelle campagne ai benestanti nelle città - si liberavano con furia iconoclasta di mobili e suppellettili di artigianato locale o di artigianato illustre, liberty e déco, per acquistare cupidi i primi mobili in
stile, ossia i mobili che non ne hanno.
Li si può capire, prostrati com'erano dalla fame e affamati di benessere, ma se i giovani diffidano dell'esempio dei padri li si può altrettanto capire. Ai migliori di loro dobbiamo la riscoperta delle tradizioni locali, della cucina regionale, delle giostre e dei giochi medievali, delle feste in costume, dell'arte popolare. E soprattutto la tutela e la salvaguardia del paesaggio.
Il paesaggio inviolato della natura, soprattutto dei boschi e delle montagne, ha sempre rappresentato per gli uomini un mondo alternativo. Non solo una fonte di pericoli, ma un luogo di rifugio, un totalmente altro che ispirava speranze di liberazione e di riscatto. Robin Hood non si nascondeva nelle cantine, ma nella foresta, che diventava il simbolo di una vita diversa, più vicina alle aspirazioni profonde degli uomini.
Ma nell'ultimo secolo ha prevalso una concezione diametralmente opposta: da alternativa utopica e visionaria, il paesaggio si è mutato in merce equiparabile a qualsiasi altra, da sfruttare nel disprezzo di tradizioni, uomini, animali e cose. Per fortuna, la specie si difende con gli anticorpi delle generazioni più giovani che sentono minacciata direttamente la loro eredità. Il funzionamento di
questo sistema immunitario presenta, come quello biologico, aspetti sconcertanti e contraddittori: da
un lato si assiste a un imbarbarimento culturale, che antepone alla maturazione critica la maturazione tecnologica, dall'altro l'ecologia assume consapevolezza storica e artistica. Si cerca di recuperare non solo il paesaggio naturale. Ma quello urbano e civile."

Queste parole non le ho scritte io: le ha scritte Giuseppe Pontiggia (1934-2003). E a trascriverle sono stati i bambini (uno dettava, l'altra scriveva) durante il tragitto da Mâcon a Parigi. Perché il paesaggio bisogna imparare a leggerlo. Mentre li ascoltavo, mi è tornato in mente quello che diceva Robert de Beaugrande parlando della storia della linguistica: che procede a salti, come altre discipline sociali, secondo un movimento chiamato, con una metafora suggestiva ancestor hopping. L'alleanza dei nipoti coi nonni che tutti ben conosciamo, e che ci porta alla riscoperta del "fatto come una volta", à l'ancienne. Mi vengono in mente anche le parole del mio amico Roberto, giovane negli anni '60, incredulo di fronte alle pappe ideologicamente insipide dei nostri bambini : "Noi dovevamo lottare contro il sistema. Voi lottate contro il sale nella pasta".
Durante il viaggio, stavolta senza nessuno alla mia destra, abbiamo anche contato le altre Citroën (25 in tutto), e letto i panneaux: oltre a quelli verdi, che indicano svincoli e distanze chilometriche, quelli marroni, che segnalano castelli, chiese, boschi: luoghi di interesse naturalistico o culturale che dovrebbero indurci a deviazioni continue, o forse solo suggerirci itinerari diversi e invitarci a guardarci intorno.
Anche nei piccoli centri francesi ci ha  colpiti la quantità di insegne stradali che mandano messaggi all'automobilista di passaggio: non solo indicazioni e divieti, ma informazioni di carattere culturale, che rimandano all'identità e alla storia del luogo - città fiorita (da una a quattro stelle, come gli alberghi), città del vino e così via.
Perfino i pannelli luminosi, in autostrada, mandano segnali che ci fanno sorridere: non solo indicazioni di lavori in corso e rallentamenti, ma anche ingiunzioni come "Ralentir. Risque de  pollution". In Italia lo spauracchio dell'inquinamento non farebbe rallentare nessuno... La linea che separa la corsia di emergenza è disegnata a tratti: 2 tratti indicano la distanza di sicurezza. Anche la linea di mezzeria, in alcuni punti, ha dei dissuasori a rilievo. Una maggiore sicurezza è garantita anche in caso di deviazione, con barriere mobili che separano le corsie
Perché,  come scriveva Raffaele Simone in un libro significativamente intitolato "Il paese del pressapoco",  "il funzionamento della circolazione stradale non è solo una questione di comportamento, ma rivela in profondo un punto di vista sulla vita, dato che stabilisce il modo in cui un popolo considera il diritto e i doveri, come sente sé stesso e come pensa gli altri, come immagina le leggi e le punizioni".
Il comportamento stradale, in effetti, come tutte le norme sociali, implica il riconoscimento e il rispetto degli altri, ovvero  l'accettazione dei limiti che la presenza dell'altro ci impone. Si basa di fatto su un impegno personale (lo sforzo di rispettare le norme) che ci si aspetta di vedere contraccambiato (si spera che anche gli altri le rispettino, e che chi non le rispetta sia punito dalla legge). Un impegno che ha un costo (frenare i nostri impulsi egocentrici) per taluni troppo gravoso,  e tutto sommato poco apprezzato, almeno nel nostro Paese.
Eppure, circolando sulla A6, mi rendo conto che la fatica che deriva dal rispetto delle regole (sorpassare a 135, per esempio, bru-bru-bru) è compensata dalla maggiore efficienza della circolazione  che ne deriva. Il traffico sembra procedere a flussi ordinati che si addensano verso la capitale. Le ore di viaggio scorrono veloci, benché a velocità contenuta.
Arrivando da sud, Porte de l'Italie, si scorge la sagoma della torre-giraffa. Incrociamo ponti su cui passano mezzi familiari: il trenino Orlyval, il métro. Giunti ai  boulevards péripheriques puntiamo verso Denfert-Rocherau per andare a salutare il leone che sorride (Un leone a Parigi, di Beatrice Alemagna, ė uno dei libri preferiti dai bambini) . Poi verso la Senna per controllarne il livello e l'allestimento di sdraio e ombrelloni sui quai, come ogni estate. E infine verso il garage che gli amici ci hanno messo a disposizione. Per qualche giorno lasceremo lì la macchina.

 
 
 


mercoledì 20 luglio 2016

La gourmandise

Ho spesso pensato che il cuore della Francia fosse Parigi e il resto non fosse altro che noioso retroterra. Del resto l'intera rete stradale in Francia è concepita come una tela di ragno di cui Parigi è il centro. Un paese centralizzato, a differenza del nostro, in cui ogni città è il centro di una regione o una provincia, e rivendica la propria specificità o autonomia.
Nelle tappe di avvicinamento alla capitale scopro invece il terroir, una terra che non si limita a fornire alla grande città prodotti enogastronomici sopraffini, ma evoca un savoir-faire antico e un'orgogliosa appartenenza a un territorio naturalmente fertile e sapientemente valorizzato dal lavoro dell'uomo. Una sorta di certificato di autenticità, rivendicato orgogliosamente dai vini della zona: un vin du terroir è un vino "terragno", ma anche e soprattutto un vino "di razza", oltre che di origine controllata.
Qui, nella campagna borgognona, nel cuore dei vigneti del Macon-Villages e del Pouilly-Fuissé, con la loro scansione geometrica, i muri a secco e gli abitati in pietra dai tetti poco spioventi (così lontani dai prestigiosi chateaux del bordolese) lo sguardo si acquieta: il verde è vero verde.
Guidare lungo le strade che costeggiano i vigneti, salendo e scendendo per seguire il profilo di dolcissime colline, è un piacere autentico: gourmandise de la conduite. Strade poco battute ma dal manto impeccabile, che obbligano a rallentare solo in vista dei dos d'âne, i dossi (d'asino), o dei tanti rond-point, le rotatorie che hanno sostituito gli antichi carrefour, costringendoci a ripetuti giri di giostra.
Dall'alto della roche de Solutré (a 500 m di altitudine), il sito preistorico che interrompe il verde con la rudezza del suo sperone roccioso, la vista ripaga della fatica dell'ascesa sotto la canicola (con le scarpe sbagliate, una borsa troppo pesante e i bambini assetati). La roccia domina i vignobles, la vallata della Saône, la roccia sorella di Vergisson. Si intravede perfino la silhouette del Monte Bianco, all'orizzonte. Terra e pietra: uno straordinario connubio.
Ogni salita difficile ė una metafora esistenziale. Per me è inevitabile pensare a Petrarca e alla lettera
più celebre del suo epistolario, che trasforma l'ascensione al monte Ventoso in compagnia del fratello (ciascuno col proprio passo, chi più sicuro spedito, chi più incerto ed esitante di fronte agli inciampi) nell'epifania di una svolta. Svolta che si compie a forza di citazioni che aggallano alla memoria ("l'ostinata fatica vince ogni cosa", Virgilio) e di un libro (le Confessioni di Agostino, che obbligano il poeta a un rivolgimento di sguardo).
Risaliti in macchina, guidare ė un sollievo. Dopo i vigneti, è la volta del bosco: lo attraversiamo per arrivare al vicino castello di Pierreclos, con le sue torri circolari, che contrastano con i grossi campanili quadrilateri delle chiese romaniche incontrate nel tragitto.
Se le chiese sono rimaste intatte (col loro cimitero, testimonianza di una prossimità tra vivi e morti che noi abbiamo dimenticato), i castelli della zona sono stati oggetto della distruzione rabbiosa dei paysans durante la rivoluzione. Ma il senso del patrimoine (parola che noi italiani usiamo preferibilmente per indicare grandi patrimoni privati) li ha riportati all'antico splendore, giardini e clos (vigneti) compresi.
La vittima più illustre dei saccheggi dei rivoluzionari (un altro, diverso terroir) è stata in realtà la vicina abbazia di Cluny, il più importante centro monastico del Medioevo. Mi tornano in mente le parole (e i libri) di Vito Fumagalli, il mio professore di storia medievale, il modo in cui ci faceva rivivere nelle sue lezioni lo spirito del tempo.
Anne, la mamma di Jeanne, mi racconta che le pietre dell'abbazia distrutta sono servite come materiale per la costruzione dei palazzi della cittadina di Cluny. Anche questa mi sembra una metafora: di ciò che di bello possiamo costruire con le rovine del passato. Penso allo splendore di Venezia, l'unica città italiana le cui radici non risalgano all'antichità classica, interamente costruita con pietre di recupero provenienti dall'entroterra e dalla costa dalmata.
Al ritorno, percorriamo la route Lamartine, costellata di monumenti e paesaggi celebrati dal poeta romantico e uomo politico francese. Che noi italiani ricordiamo per un episodio di cronaca: il duello che Alphonse de Lamartine fu costretto a sostenere, nel 1826 a Firenze, con il patriota napoletano Pepe, per aver osato confrontare in versi il passato glorioso dell'Italia con l'odierna decadenza (Terre, où les fils n'ont plus le sang de leurs aïeux...).
Anche il centro di Mâcon, in cui arriviamo per comprare il gateau per la cena (l'Idéal Mâconnais), porta nei monumenti e nei toponimi la memoria di Lamartine. Con disappunto dei bambini, che vorrebbero almeno una strada dedicata a "Grisou" Griezmann, rivelazione degli ultimi europei.
Tornati a casa, ci mettiamo in cucina. Mi piace épater e régaler gli amici che ci ospitano, preparando pietanze semplici e buone. Il ragù, cotto a fuoco lento al mattino durante la lunga colazione a bordo piscina, è già pronto. Impastiamo e stendiamo la pasta per le tagliatelle con un matterello  di fortuna. Le tagliamo disponendole a nido sul piano in marmo cucina. Jean (il papà di Jeanne), smesse le vesti del cardiologo, si siede intanto al pianoforte a poi al clavicembalo ripassando la  melodia di Liszt che  gli è valsa il cuore della sua donna, bella come le filles du Nord des chansons de Brel.
Un tuffo nell'acqua bollente e sono pronte. A tavola finiamo per parlare solo di cibo, ma con un senso nuovo di vicinanza, che la cura amorevole nella preparazione ha creato. Questa sera beviamo il lambrusco che abbiamo portato. Niente a che vedere con lo Chassagne-Montrachet di ieri sera, ma sufficientemente dépaysant per i nostri ospiti.
Domani ripartiremo alla volta di Parigi, ma non prima di aver preparato un risotto alle fragole!



 


 
 

lunedì 18 luglio 2016

Dépaysement

"Ci sono donne con cui si sta bene, e altre che ti fanno uscire di senno: donne che, quando sono ormai scomparse da un pezzo, vengono a farti visita di notte, a minacciare il sonno, proprio come facevano in passato: scavando dentro di te una crepa per poi riempirla, minando senza ritegno l'immagine di sé che, per vivere, ognuno di noi deve ricostituire ogni mattina." (J.B. Pontalis, Loin).
"Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio" (Claudio Magris, L'infinito viaggiare).
Questi due incipit esprimono, a parti invertite, la poesia del dépaysement: ogni viaggio (ogni relazione importante) è un'esperienza di "spaesamento" e, insieme, una ricerca di "microcosmi" quotidiani. Ci sentiamo spaesati, disorientati, quando ci allontaniamo dalle nostre abitudini percettive: è la sensazione di smarrimento che proviamo quando ci perdiamo, magari perché abbiamo imboccato senza volerlo una fausse route. Ma dépaysement è anche l'estraniamento, il cambiamento positivo che cerchiamo ogni volta che usciamo o partiamo per prendere aria, per sentirci ailleurs, altrove rispetto alle contraintes, gli obblighi e i lacci della quotidianità. Le rêve éveillé, insomma, il sogno a occhi aperti. Ma anche, lontano dalle sirene turistiche e dai luoghi comuni, la scoperta fortuita di un luogo autentico, che ci somiglia.
Le dépaysement. Voyages en France è il libro di Jean-Christophe Bailly che ho messo in valigia, confidando nella sua promessa: le dépliement du paysage contre le repli d'un pays. Dispiegamento contro ripiegamento. Una sensazione che proviamo all'avvicinarsi della frontiera. Un confine naturale come il Monte Bianco, così massiccio e candido, impone un cambiamento di sguardo: ai bambini e a me. Essere saliti fino alla cima prima di attraversarlo in tunnel, aver goduto della luce accecante e dell'aria purissima prima di entrare nel buio con l'aria condizionata ci dà il senso, non anodino, del passaggio.
Il traffico ė fluido, annuncia un pannello luminoso. Già, perché nelle strade corriamo e scorriamo come il sangue nelle vene: la circolazione stradale, appunto, attraverso le arterie principali.
Il traffico ė fluido (non ci sono code) e ordinato, aggiungo. Perché le macchine fluiscono e
defluiscono seguendo le indicazioni. La velocità nel traforo ė necessariamente limitata. Ma c'è dell'altro: piccole luci blu segnalano l'intervallo ottimale per mantenere la distanza di sicurezza. Stiamo varcando una frontiera, in tutti i sensi.
Dall'altra parte il paesaggio è simile, ma vigono regole diverse. I veicoli rispettano naturalmente i limiti di velocità indicati, variabili a seconda dei tratti dai 90 ai 130. Capisco che, per fare meno fatica e non distrarmi seguendo i pannelli, mi basta guardare gli altri veicoli e adeguarmi. Jeanne, che ci accompagna (e che noi riaccompagniamo a casa), mi spiega che il sistema di controlli radar della velocità e la penalizzazione a punti hanno cambiato le abitudini di guida dei francesi. A sorpassare a velocità superiore a quella consentita sono solo macchine dalle targhe tedesche e svizzere: riconoscerle è il gioco che inventiamo sul momento per vincere la monotonia del viaggio.
Guardare il panorama dal finestrino, decifrare i segni intorno a sé, discuterne insieme è l'esercizio che ci imponiamo di fare quando viaggiamo in macchina. Più faticoso ma più gratificante che guardare piccoli schermi. Quando ci si stanca, è concesso leggere, fare parole crociate, giocare a carte, cantare,
dormire. Come negli anni 70.
Il cambio automatico e la velocità fissa, l'assenza di comportamenti scorretti (sorpassi azzardati, strombazzate e fari insistenti per liberare la corsia di sorpasso: tutto il repertorio di maleducazione autostradale cui siamo abituati) abbassano la mia soglia di concentrazione. Ci fermiamo in un'area di servizio attrezzata, cui si arriva dopo uno strano detour. Non c'è alcun caffè, ma servizi puliti, acqua freschissima e un grande parco ombreggiato. Il parcheggio è vuoto, eppure sento il bisogno irrefrenabile di mettere la macchina un po' di traverso, fuori dalle strisce. Un pallone, anche quando la macchina è stracarica, non manca mai. Così ci mettiamo a giocare a calcio, dimenticandoci per un po' della strada.
Quando ci rimettiamo in viaggio la nostra destinazione sembra vicina. "Je n'ai as pas peur de la route, faudra voir, faut qu'on y goute" - cantano i Noir Désir alla radio. Dopo il dipartimento Rhone-Alpes è la volta della Bresse (da cui arrivano i migliori polli del Paese). La nostra destinazione è Mâcon, ma usciamo dall'autostrada un po' prima del previsto per prendere la strada dipartimentale che attraversa la campagna e i paesi, la Francia profonda, la province, le terroir.   Arrivati alla Saône, altro confine naturale, scorgiamo la città, porta della Borgogna.

Attraversiamo il ponte e costeggiamo il lungofiume per poi allontanarci di nuovo verso la campagna, questa volta in direzione dei vigneti.
"Quanto manca?", "Quando arriviamo?" - nel nostro lessico familiare queste due domande corrispondono al numero 5 (1 = ho fame, 2 = ho sete ecc.). "Ancora dieci minuti" - dico, sperando che anche questa volta, come quando giocano, gli ultimi dieci minuti durino più del solito...
L'attesa è ripagata. Eccoci arrivati nella ferme di Jeanne, la ruelle au Verjus, un antico domaine viticole appartenuto al canonico della città, un riparo per i pellegrini in cammino verso Compostela.


 

 
 
 


domenica 17 luglio 2016

Oziorinchi in giardino

"Esistono molti modi di scrivere un diario come questo. Comincio a diffidare delle descrizioni, e anche di quegli adattamenti spiritosi che trasformano l'avventura di ogni giorno in narrazione; mi piacerebbe scrivere non soltanto con l'occhio, ma con la mente; e scoprire la realtà delle cose al di là delle apparenze." Così scriveva Virginia Woolf nel 1908, aprendo il suo diario di viaggio in Italia.
Inevitabile pensare a lei entrando nel Giardino dell'artemisia, l'incantevole luogo che ci accoglie, nella vallata alle porte della Francia. Dall'alto di Gressan la vista domina Aosta, spaziando dai vigneti dell'azienda valdostana Les Crêtes fino al picco del Grand Combin.
Ma lo sguardo si posa (e riposa) anche negli immediati dintorni: nel verde del giardino all'inglese, disposto su terrazze pensate come "stanze": quella delle foglie, quella delle rose, quella delle erbacee perenni. È Cesare che lo cura, scegliendo ogni pianta con la passione e lo stile che ha messo anche nella decorazione degli interni di questa straordinaria chambre d'hôtes.
Ogni anno, dal non lontano castello di Masino e dai viaggi nella campagna inglese, arrivano nuove specie rare attentamente selezionate dal nostro ospite: rose antiche, una deinante cerulea, un'ortensia Annabelle, la digitale letea, una margherita spettinata appena scovata nel vivaio di Beth Chatto, a Colchester.
E tante specie diverse di Artemisia, ovviamente: l'erba di Artemide, pianta lunare dalle virtù medicinali, spirituali e profetiche, come rivela il Florario di Alfredo Cattabiani (sottotitolo: Miti, leggende e simboli delle piante). Usata anche come ingrediente per fare un amaro locale, il Genepì.
La casa contiene anche una straordinaria biblioteca sul giardinaggio. È qui che sfoglio il libro sul giardino di Virginia Woolf, che Cesare a Carmela hanno visitato quest'anno nel Sussex, durante il loro consueto viaggio in macchina oltre Manica. E poi lo straordinario libro illustrato del giardino, che raccoglie gli articoli scritti per l'Observer negli anni 40 e 50 dall'amica e corrispondente di Virginia: Vita Sackville-West. Un libro capace di evocare profumi: come quello della pianta dell'incenso, che ho lasciato crescere nel mio piccolo giardino-terrazzo sui tetti di Bologna.
"Nessuno potrebbe essere un giardiniere se non vivesse nella speranza" - scriveva Vita. Ogni rosa rifiorente, ogni edera rampicante, ogni pianta succulenta sono la testimonianza della passione spesa e della speranza che resta anche dopo la potatura dei rami secchi. Perché "il giardino è sempre una elementare e costante istituzione umana che, con vittoriosa tenacia, contro ogni ostacolo afferma la propria esistenza" (Rudolf Borchardt, Il giardiniere appassionato), ma sempre nella consapevolezza è l'accettazione del limite: "il giardino non è la natura, per quanto possa somigliarle".
Perfino i bambini trovano qui il loro bonheur: Carmela li porta fino alla casetta dello scrittore, a caccia di ragni ballerini. Ci mostra il bug hotel, un riparo costruito per gli insetti predatori del giardino (coccinelle, forbicine, crisope, vespe solitarie), fatto di materiali di recupero (fieno, pigne, canne, mattoni). Perché sono loro i più preziosi alleati alla lotta contro gli insetti che divorano le amate piante: afidi, cocciniglia, e soprattutto il temibile oziorinco (subito soprannominato lo zio rinco...).
Oziorinco: una parola così evocativa e misteriosa da scatenare subito la ricerca dei piccoli entomologi, una volta calato il sole, armati di pila. Dove passa l'oziorinco rimangono foglie smangiucchiate, di edera soprattutto. La caccia al coleottero è aperta. E si trasforma in gara, mentre noi chiacchieriamo intorno al tavolo, il bicchiere alla mano, dei nostri progetti grammatici passati e futuri. Perché Carmela è l'amica con cui ho diviso un'avventura editoriale imprevista e spossante. Eppure, visti da qui, a distanza, quegli sforzi trovano un loro posto, un senso retrospettivo e prospettivo insieme.
Come l'emicrania che mi assedia dopo la salita e la discesa troppo rapide al rifugio Torino, a quasi 3500 metri, grazie alla nuova meraviglia che collega Courmayeur alla vetta del Monte Bianco: la skyway, strada celeste e strada di ghiaccio insieme. Ascesa panoramica verso l'azzurro, l'aria rarefatta, il bianco delle nevi perenni di punta Helbronner. Ma varrebbe la pena salire anche solo per fermarsi alla prima stazione della funivia (sopra i 2000m) e visitare Saussurea: un giardino botanico ricavato dalla roccia che raccoglie specie alpine rare: dalla stella alpina al non-ti-scordar di me delle morene, il riccio di dama, e naturalmente la Saussurea, incontrata sul Monte Bianco dallo scienziato ed esploratore svizzero che a fine 700 organizzò la prima scalata al monte più alto d'Europa: Horace-Bénédicte de Saussure. Un antenato di Ferdinand, il linguista che il secolo dopo avrebbe dato avvio allo studio scientifico delle lingue, considerate come "sistemi".
Perché anche la lingua è un giardino.





sabato 16 luglio 2016

Le auto del terrore

I fatti di Nizza ci obbligano a una sosta. E a una riflessione. Sulle modalità dell'attentato innanzitutto, che ha utilizzato un autoveicolo (un truck) lanciato a zigzag sulla folla festante, alla stregua di una falciatrice.
Gli autoveicoli imbottiti di tritolo sono una strategia consolidata del terrorismo di ogni colore e bandiera. Nella nostra memoria collettiva sono rimaste impresse anche immagini di macchine usate come bare, come la R4 di via Fani, o trasformate in strumento di martirio, come la Giulia di Pasolini a Ostia: delitti evocati dall'artista australiano William Kentridge nei suoi Trionfi e lamenti ricavati dalla "zella", la coltre di sporcizia che ricopre i muri del lungotevere, a Roma.
Questa volta, a Nice, è stato usato un mezzo pesante, in corsa lungo una zona pedonale, come veicolo di terrore e morte.
Che ci fosse il rischio di azioni terroristiche nel giorno della festa nazionale francese, quando ci si ammassa per assistere a parate o fuochi di artificio, o ci si attarda per il tradizionale ballo coi pompieri, era prevedibile. È il dove, il come, che ogni volta ci lascia interdetti.
Risale a poco tempo fa la lettura di un piccolo libro del filosofo francese Alain Badiou, di cui avevo in passato apprezzato un Elogio dell'amore. Anche questa volta il libro era sul bancone di Nicoletta, la mia amica libraia indipendente. Si intitola Il nostro male viene da più lontano. Pensare i massacri del 13 novembre.
C'è una tesi del libro che mi ha colpita, e che si può riassumere in questi termini: "La frustrazione del desiderio d'Occidente apre la strada alla pulsione di morte". Perché, al di là della dichiarata fede jihadista, gli attentatori sono spesso giovani di nazionalità europea cresciuti nelle banlieues, le periferie delle medie e grandi città, nel dilemma tra un'inclusione controversa (e spesso impossibile) nel dispositivo consumista e le vie di fuga offerte dall'adesione a ideologie mortifere.
Perché il modello francese di integrazione ha smesso di funzionare quando l'Occidente ha smesso di pensare che un altro mondo è possibile, per noi stessi e per i nostri figli, e quando la deindustrializzazione forsennata ha finito per emarginare i figli dei vecchi operai arrivati dalle ex-colonie africane: la racaille (feccia), come sprezzantemente li aveva definiti il Presidente Sarkozy durante le rivolte del 2005, che avevano visto migliaia di auto incendiate.
Perché nel nostro mondo si finisce per odiare ciò che non si può avere: libertà di costumi e di pensiero, ma anche - banalmente - uno stile di vita basato essenzialmente sul consumo e sul benessere. (Auto di lusso comprese).
Perché il camion ė entrato sulla Promenade des Anglais col pretesto di dover consegnare gelati. E l'hanno lasciato passare.

 
 

Donne e motori

Sono sempre stata colpita dalle pubblicità di automobili, dall'assenza di donne sullo scenario, in molti casi, o dalla loro presenza valorizzante ma reificata.
In entrambi i casi, l'immaginario maschile proietta sulla macchina significati facili da decodificare, ma non per questo meno insidiosi. Come ogni artefatto meccanico, l'automobile ė maneggiata preferibilmente da uomini; come ogni oggetto di consumo, viene femminilizzata per essere resa desiderabile. O, più in generale, viene sessualizzata per essere acquistata (ma questo, in Italia, è vero anche per un ben più prosaico e accessibile gelato).
Basta comunque soffermarsi sugli aggettivi che descrivono un nuovo modello di un qualsiasi marchio per cogliere senza sforzo le proiezioni. Ogni macchina ha un carattere ("vivace ed eccitante", "dinamica e audace"), una silhouette ("raffinata ed elegante"), perfino uno sguardo ("magnetico") e, quando la concorrenza si fa dura, un pedigree ("origini nobili"). Sullo sfondo, alcune caratteristiche tecniche, ma generalissime ("efficiente e performante").
Siamo, evidentemente, nel campo metaforico dell'umanizzazione (e della femminilizzazione). A volte, per le macchine più sportive, si arriva all'animalier: "aggressiva" è l'aggettivo più usato per macchine che nasconderebbero una bestia nel motore (metti un(a) tigre nel motore era il ritornello di una celebre marca di carburanti).
Penso alla poesia della vecchia DS, familiarmente chiamata "la dea" (déesse) in patria, "lo squalo" da noi. E anche al carapace della vecchia "due cavalli", ancora capace di evocare un mondo (quello del trasporto a cavallo) mandato in pensione dal motore a combustione interna.
Due macchine, la DS e la 2CV, disegnate su carta, senza guardare alla concorrenza, ma inseguendo idee capaci di dare forme nuove alle lamiere.
I tempi sono cambiati, evidentemente: la bellezza ė diventata uno stereotipo, per le donne come per i motori. Guardandosi  intorno, si ha l'impressione che cerchino disperatamente di assomigliarsi.
Lo sguardo dei bambini è implacabile da questo punto di vista. Distinguono a distanza lo specchietto retrovisore esterno (a forma di foglia) di una Pagani che ci supera. Mi fanno notare ai semafori piccoli dettagli (nei fari, soprattutto) che dovrebbero distinguere macchine che a me sembrano tutte uguali. Ripenso a una frase pronunciata dal poeta Camillo Sbarbaro a proposito dei dizionari: "Son come i coppi: uno versa l'acqua all'altro".
Perché la distinzione, oggi, prescinde dall'identità dalle linee: quello che conta è il brand, che sarebbe la marca, ma vuole essere molto di più: come ogni simbolo, ė qualcosa che sta per qualcos'altro. E l'anglicismo non può che aumentare il potere evocativo. La sabbia negli occhi. Come quella del marchand de sable che arrivava alle 8 insieme all'orso Nounours per addormentare i bambini in uno dei primi disegni animati della televisione francese (Bonne nuit les petits, l'equivalente del nostro Carosello).
Lo stesso venditore di cui canta Henri Salvador in una canzone indimenticabile, almeno per noi genitori. Del resto, enchantement è diventata una parola d'ordine del marketing, che ci vorrebbe bambini capaci di incanto: di incantarci e di lasciarci incantare. Per trasformarci in consumatori docili. Esigenti ma docili. Che sia un ossimoro?



giovedì 14 luglio 2016

S'épanouir en voiture

L'amore per un altrove è anche amore della lingua degli altri: la lingua che gli altri parlano e, prima ancora, che abitano. Perché la lingua è un luogo dell'identità, del ri-conoscimento, prima ancora che un mezzo di comunicazione.
Io del francese amo la chiarezza dello stile e la finezza argomentativa, fatta di superfici piane su cui si innesta la "pointe", il picco discorsivo, lo scarto inatteso. Inaspettatamente, ritrovo queste caratteristiche nella macchina che guido per una prova sulle lunghe distanze. Confortevole, ma insieme capace di slanci: in curva, per esempio, una volta superato il punto di corda. O nello scatto che precede e segue il sorpasso, il cambio temporaneo di corsia.
Delle altre lingue, però, si possono amare anche parole singole, così evocative e intraducibili. O traducibili solo con sforzo. Il francese s'épanouir, per esempio. Detto dei fiori che sbocciano come dei bambini che crescono in modo armonioso, sviluppando a pieno la propria personalità. Lo si può dire anche di un viso, quando diventa radioso. Mi chiedo se la metafora sia appropriata a descrivere un'esperienza di guida. Non la macchina in sé, ma il cambiamento di stato emotivo che si produce quando siamo in un abitacolo e abbiamo il controllo del mezzo.
Perché la macchina, che nella quotidianità usiamo come semplice mezzo di trasporto o di spostamento, nella dimensione del viaggio dispiega le proprie potenzialità: quando, spento il navigatore, possiamo concederci il lusso di perderci, prendendo una strada secondaria per godere del paesaggio, o di fare una sosta imprevista per soddisfare la curiosità dei bambini che, dai sedili posteriori, cercano in quel paesaggio segni noti e presenze familiari.
Riconosco nella macchina che guido (una nuova DS) la caratteristica che il semiologo Roland Barthes attribuiva alla vecchia Citroën DS, conferendole la statuto di moderna mythologie: la capacità di "sottrarsi al bestiario della potenza" per esprimere la velocità attraverso segni non aggressivi, ma morbidi e decantati. Come la gradazione alcolica in un vino nobile.
Perché non è la macchina in sé (un oggetto di consumo tra i tanti, benché uno dei più "sublimi"), né la strada (un luogo che spesso si rovescia nel suo contrario, un "nonluogo"), a richiederci la capacità di apprivoiser, di domare o addomesticare il mezzo. Al contrario, sono la macchina e la strada a richiamarci al necessario dominio di noi stessi, alla ricerca di un equilibrio mobile ma responsabile, lontano dalle finzioni pubblicitarie.




Always crashing in the same car

Every chance
Every chance that I take
Take it on the road
Those kilometers and the red light
I was always looking
Left and right
Always crashing in the same car


L'avete riconosciuta? E' l'ultima traccia registrata per Low (1977), l'album di David Bowie che apre la trilogia berlinese.
Metafora di un uomo che coglie ogni occasione lungo la strada, finendo sempre per sbattere contro i propri errori, anche quando si tratta di girare in tondo nel chiuso di un garage.
David Bowie is è il titolo della mostra che apre oggi a Bologna, al MAMBo.
Percorrendo le sale - le cuffie alle orecchie - mi è tornato in mente Robert Vaughan, l'algido protagonista di Crash (1973), il romanzo di J.G. Ballard (da cui è tratto il film omonimo di D. Cronenberg del 1996) che trasforma la macchina (e lo scontro automobilistico) in "metafora totale della vita dell'uomo nella società moderna", con la sua ossessione mortifera per il sesso e la tecnologia.
E poi, per una sorta di cortocircuito mentale, il romanzo di Laurent Binet: HHhH. Il cervello di Himmler si chiama Heydrichcon la sua mirabile descrizione di una macchina (una Mercedes nera che "guizza sulla strada come un serpente", su cui viaggia l'ideatore della soluzione finale) destinata a essere fermata in una curva di Praga e a cambiare il corso della storia.
Una digressione, un intermezzo: prima della partenza.