giovedì 21 luglio 2016

Paesaggio mobile

"Mai come nella nostra epoca l'uomo è vissuto in un paesaggio mobile. Nel giro di vent'anni una costa solitaria può trasformarsi in un vivaio umano, una radura alpina in un centro termale, avvolto dai fili delle teleferiche e delle funivie. Gli uomini hanno sempre collaborato con la natura nel modellare il paesaggio, abbattendo foreste, deviando fiumi, sventrando montagne, annientando specie animali, addomesticandone altre.
Qual è allora la differenza tra oggi e ieri? È il tempo della metamorfosi, che allora esigeva l'apporto di più generazioni, mentre ora l'uomo, nel corso della sua, può vedere più volte il paesaggio cambiare volto, fino a non riconoscerlo più e rifiutarlo. Una volta riuscivano a tanto solo le forze devastanti della natura, i terremoti, le meteore, le inondazioni, il fuoco: e gli uomini potevano ricorrere solo all'ultima, al fuoco, per completare in modo definitivo quello che le armi avevano cominciato. Ferro ignique... Ma ad altri mezzi artificiali approntati dalla modernità si deve oggi il sovvertimento del paesaggio planetario: mezzi esplosivi di terrificante efficacia, mezzi chimici di inquinamento immediato e di desertificazione differita. L'ultimo contributo umano alle mutazioni del paesaggio è l'effetto serra con il riscaldamento dell'atmosfera e dei mari.
L'aspetto più paradossale e sinistro della rivoluzione paesaggistica italiana è che la distruzione è stata non compensata, ma raddoppiata da un'operazione simmetrica e opposta: la ricostruzione. Quest'ultima, nel dopoguerra, ė stata promossa e diretta - contrariamente a quanto pensano quelli che non l'hanno vissuta - non dalle generazioni più giovani, ma da quelle che detenevano il potere politico, economico e culturale. E mai ricostruzione ė stata più distruttiva.
Sono gli anziani a detestare il passato prossimo che li ha delusi e a delirare per un futuro che li risarcisca. E sono i giovani, per ragioni analoghe ma rovesciate, a temere un futuro che non conoscono e a rimpiangere un passato che non hanno conosciuto. I vecchi proprietari - dai contadini nelle campagne ai benestanti nelle città - si liberavano con furia iconoclasta di mobili e suppellettili di artigianato locale o di artigianato illustre, liberty e déco, per acquistare cupidi i primi mobili in
stile, ossia i mobili che non ne hanno.
Li si può capire, prostrati com'erano dalla fame e affamati di benessere, ma se i giovani diffidano dell'esempio dei padri li si può altrettanto capire. Ai migliori di loro dobbiamo la riscoperta delle tradizioni locali, della cucina regionale, delle giostre e dei giochi medievali, delle feste in costume, dell'arte popolare. E soprattutto la tutela e la salvaguardia del paesaggio.
Il paesaggio inviolato della natura, soprattutto dei boschi e delle montagne, ha sempre rappresentato per gli uomini un mondo alternativo. Non solo una fonte di pericoli, ma un luogo di rifugio, un totalmente altro che ispirava speranze di liberazione e di riscatto. Robin Hood non si nascondeva nelle cantine, ma nella foresta, che diventava il simbolo di una vita diversa, più vicina alle aspirazioni profonde degli uomini.
Ma nell'ultimo secolo ha prevalso una concezione diametralmente opposta: da alternativa utopica e visionaria, il paesaggio si è mutato in merce equiparabile a qualsiasi altra, da sfruttare nel disprezzo di tradizioni, uomini, animali e cose. Per fortuna, la specie si difende con gli anticorpi delle generazioni più giovani che sentono minacciata direttamente la loro eredità. Il funzionamento di
questo sistema immunitario presenta, come quello biologico, aspetti sconcertanti e contraddittori: da
un lato si assiste a un imbarbarimento culturale, che antepone alla maturazione critica la maturazione tecnologica, dall'altro l'ecologia assume consapevolezza storica e artistica. Si cerca di recuperare non solo il paesaggio naturale. Ma quello urbano e civile."

Queste parole non le ho scritte io: le ha scritte Giuseppe Pontiggia (1934-2003). E a trascriverle sono stati i bambini (uno dettava, l'altra scriveva) durante il tragitto da Mâcon a Parigi. Perché il paesaggio bisogna imparare a leggerlo. Mentre li ascoltavo, mi è tornato in mente quello che diceva Robert de Beaugrande parlando della storia della linguistica: che procede a salti, come altre discipline sociali, secondo un movimento chiamato, con una metafora suggestiva ancestor hopping. L'alleanza dei nipoti coi nonni che tutti ben conosciamo, e che ci porta alla riscoperta del "fatto come una volta", à l'ancienne. Mi vengono in mente anche le parole del mio amico Roberto, giovane negli anni '60, incredulo di fronte alle pappe ideologicamente insipide dei nostri bambini : "Noi dovevamo lottare contro il sistema. Voi lottate contro il sale nella pasta".
Durante il viaggio, stavolta senza nessuno alla mia destra, abbiamo anche contato le altre Citroën (25 in tutto), e letto i panneaux: oltre a quelli verdi, che indicano svincoli e distanze chilometriche, quelli marroni, che segnalano castelli, chiese, boschi: luoghi di interesse naturalistico o culturale che dovrebbero indurci a deviazioni continue, o forse solo suggerirci itinerari diversi e invitarci a guardarci intorno.
Anche nei piccoli centri francesi ci ha  colpiti la quantità di insegne stradali che mandano messaggi all'automobilista di passaggio: non solo indicazioni e divieti, ma informazioni di carattere culturale, che rimandano all'identità e alla storia del luogo - città fiorita (da una a quattro stelle, come gli alberghi), città del vino e così via.
Perfino i pannelli luminosi, in autostrada, mandano segnali che ci fanno sorridere: non solo indicazioni di lavori in corso e rallentamenti, ma anche ingiunzioni come "Ralentir. Risque de  pollution". In Italia lo spauracchio dell'inquinamento non farebbe rallentare nessuno... La linea che separa la corsia di emergenza è disegnata a tratti: 2 tratti indicano la distanza di sicurezza. Anche la linea di mezzeria, in alcuni punti, ha dei dissuasori a rilievo. Una maggiore sicurezza è garantita anche in caso di deviazione, con barriere mobili che separano le corsie
Perché,  come scriveva Raffaele Simone in un libro significativamente intitolato "Il paese del pressapoco",  "il funzionamento della circolazione stradale non è solo una questione di comportamento, ma rivela in profondo un punto di vista sulla vita, dato che stabilisce il modo in cui un popolo considera il diritto e i doveri, come sente sé stesso e come pensa gli altri, come immagina le leggi e le punizioni".
Il comportamento stradale, in effetti, come tutte le norme sociali, implica il riconoscimento e il rispetto degli altri, ovvero  l'accettazione dei limiti che la presenza dell'altro ci impone. Si basa di fatto su un impegno personale (lo sforzo di rispettare le norme) che ci si aspetta di vedere contraccambiato (si spera che anche gli altri le rispettino, e che chi non le rispetta sia punito dalla legge). Un impegno che ha un costo (frenare i nostri impulsi egocentrici) per taluni troppo gravoso,  e tutto sommato poco apprezzato, almeno nel nostro Paese.
Eppure, circolando sulla A6, mi rendo conto che la fatica che deriva dal rispetto delle regole (sorpassare a 135, per esempio, bru-bru-bru) è compensata dalla maggiore efficienza della circolazione  che ne deriva. Il traffico sembra procedere a flussi ordinati che si addensano verso la capitale. Le ore di viaggio scorrono veloci, benché a velocità contenuta.
Arrivando da sud, Porte de l'Italie, si scorge la sagoma della torre-giraffa. Incrociamo ponti su cui passano mezzi familiari: il trenino Orlyval, il métro. Giunti ai  boulevards péripheriques puntiamo verso Denfert-Rocherau per andare a salutare il leone che sorride (Un leone a Parigi, di Beatrice Alemagna, ė uno dei libri preferiti dai bambini) . Poi verso la Senna per controllarne il livello e l'allestimento di sdraio e ombrelloni sui quai, come ogni estate. E infine verso il garage che gli amici ci hanno messo a disposizione. Per qualche giorno lasceremo lì la macchina.

 
 
 


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