sabato 16 luglio 2016

Donne e motori

Sono sempre stata colpita dalle pubblicità di automobili, dall'assenza di donne sullo scenario, in molti casi, o dalla loro presenza valorizzante ma reificata.
In entrambi i casi, l'immaginario maschile proietta sulla macchina significati facili da decodificare, ma non per questo meno insidiosi. Come ogni artefatto meccanico, l'automobile ė maneggiata preferibilmente da uomini; come ogni oggetto di consumo, viene femminilizzata per essere resa desiderabile. O, più in generale, viene sessualizzata per essere acquistata (ma questo, in Italia, è vero anche per un ben più prosaico e accessibile gelato).
Basta comunque soffermarsi sugli aggettivi che descrivono un nuovo modello di un qualsiasi marchio per cogliere senza sforzo le proiezioni. Ogni macchina ha un carattere ("vivace ed eccitante", "dinamica e audace"), una silhouette ("raffinata ed elegante"), perfino uno sguardo ("magnetico") e, quando la concorrenza si fa dura, un pedigree ("origini nobili"). Sullo sfondo, alcune caratteristiche tecniche, ma generalissime ("efficiente e performante").
Siamo, evidentemente, nel campo metaforico dell'umanizzazione (e della femminilizzazione). A volte, per le macchine più sportive, si arriva all'animalier: "aggressiva" è l'aggettivo più usato per macchine che nasconderebbero una bestia nel motore (metti un(a) tigre nel motore era il ritornello di una celebre marca di carburanti).
Penso alla poesia della vecchia DS, familiarmente chiamata "la dea" (déesse) in patria, "lo squalo" da noi. E anche al carapace della vecchia "due cavalli", ancora capace di evocare un mondo (quello del trasporto a cavallo) mandato in pensione dal motore a combustione interna.
Due macchine, la DS e la 2CV, disegnate su carta, senza guardare alla concorrenza, ma inseguendo idee capaci di dare forme nuove alle lamiere.
I tempi sono cambiati, evidentemente: la bellezza ė diventata uno stereotipo, per le donne come per i motori. Guardandosi  intorno, si ha l'impressione che cerchino disperatamente di assomigliarsi.
Lo sguardo dei bambini è implacabile da questo punto di vista. Distinguono a distanza lo specchietto retrovisore esterno (a forma di foglia) di una Pagani che ci supera. Mi fanno notare ai semafori piccoli dettagli (nei fari, soprattutto) che dovrebbero distinguere macchine che a me sembrano tutte uguali. Ripenso a una frase pronunciata dal poeta Camillo Sbarbaro a proposito dei dizionari: "Son come i coppi: uno versa l'acqua all'altro".
Perché la distinzione, oggi, prescinde dall'identità dalle linee: quello che conta è il brand, che sarebbe la marca, ma vuole essere molto di più: come ogni simbolo, ė qualcosa che sta per qualcos'altro. E l'anglicismo non può che aumentare il potere evocativo. La sabbia negli occhi. Come quella del marchand de sable che arrivava alle 8 insieme all'orso Nounours per addormentare i bambini in uno dei primi disegni animati della televisione francese (Bonne nuit les petits, l'equivalente del nostro Carosello).
Lo stesso venditore di cui canta Henri Salvador in una canzone indimenticabile, almeno per noi genitori. Del resto, enchantement è diventata una parola d'ordine del marketing, che ci vorrebbe bambini capaci di incanto: di incantarci e di lasciarci incantare. Per trasformarci in consumatori docili. Esigenti ma docili. Che sia un ossimoro?



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