mercoledì 20 luglio 2016

La gourmandise

Ho spesso pensato che il cuore della Francia fosse Parigi e il resto non fosse altro che noioso retroterra. Del resto l'intera rete stradale in Francia è concepita come una tela di ragno di cui Parigi è il centro. Un paese centralizzato, a differenza del nostro, in cui ogni città è il centro di una regione o una provincia, e rivendica la propria specificità o autonomia.
Nelle tappe di avvicinamento alla capitale scopro invece il terroir, una terra che non si limita a fornire alla grande città prodotti enogastronomici sopraffini, ma evoca un savoir-faire antico e un'orgogliosa appartenenza a un territorio naturalmente fertile e sapientemente valorizzato dal lavoro dell'uomo. Una sorta di certificato di autenticità, rivendicato orgogliosamente dai vini della zona: un vin du terroir è un vino "terragno", ma anche e soprattutto un vino "di razza", oltre che di origine controllata.
Qui, nella campagna borgognona, nel cuore dei vigneti del Macon-Villages e del Pouilly-Fuissé, con la loro scansione geometrica, i muri a secco e gli abitati in pietra dai tetti poco spioventi (così lontani dai prestigiosi chateaux del bordolese) lo sguardo si acquieta: il verde è vero verde.
Guidare lungo le strade che costeggiano i vigneti, salendo e scendendo per seguire il profilo di dolcissime colline, è un piacere autentico: gourmandise de la conduite. Strade poco battute ma dal manto impeccabile, che obbligano a rallentare solo in vista dei dos d'âne, i dossi (d'asino), o dei tanti rond-point, le rotatorie che hanno sostituito gli antichi carrefour, costringendoci a ripetuti giri di giostra.
Dall'alto della roche de Solutré (a 500 m di altitudine), il sito preistorico che interrompe il verde con la rudezza del suo sperone roccioso, la vista ripaga della fatica dell'ascesa sotto la canicola (con le scarpe sbagliate, una borsa troppo pesante e i bambini assetati). La roccia domina i vignobles, la vallata della Saône, la roccia sorella di Vergisson. Si intravede perfino la silhouette del Monte Bianco, all'orizzonte. Terra e pietra: uno straordinario connubio.
Ogni salita difficile ė una metafora esistenziale. Per me è inevitabile pensare a Petrarca e alla lettera
più celebre del suo epistolario, che trasforma l'ascensione al monte Ventoso in compagnia del fratello (ciascuno col proprio passo, chi più sicuro spedito, chi più incerto ed esitante di fronte agli inciampi) nell'epifania di una svolta. Svolta che si compie a forza di citazioni che aggallano alla memoria ("l'ostinata fatica vince ogni cosa", Virgilio) e di un libro (le Confessioni di Agostino, che obbligano il poeta a un rivolgimento di sguardo).
Risaliti in macchina, guidare ė un sollievo. Dopo i vigneti, è la volta del bosco: lo attraversiamo per arrivare al vicino castello di Pierreclos, con le sue torri circolari, che contrastano con i grossi campanili quadrilateri delle chiese romaniche incontrate nel tragitto.
Se le chiese sono rimaste intatte (col loro cimitero, testimonianza di una prossimità tra vivi e morti che noi abbiamo dimenticato), i castelli della zona sono stati oggetto della distruzione rabbiosa dei paysans durante la rivoluzione. Ma il senso del patrimoine (parola che noi italiani usiamo preferibilmente per indicare grandi patrimoni privati) li ha riportati all'antico splendore, giardini e clos (vigneti) compresi.
La vittima più illustre dei saccheggi dei rivoluzionari (un altro, diverso terroir) è stata in realtà la vicina abbazia di Cluny, il più importante centro monastico del Medioevo. Mi tornano in mente le parole (e i libri) di Vito Fumagalli, il mio professore di storia medievale, il modo in cui ci faceva rivivere nelle sue lezioni lo spirito del tempo.
Anne, la mamma di Jeanne, mi racconta che le pietre dell'abbazia distrutta sono servite come materiale per la costruzione dei palazzi della cittadina di Cluny. Anche questa mi sembra una metafora: di ciò che di bello possiamo costruire con le rovine del passato. Penso allo splendore di Venezia, l'unica città italiana le cui radici non risalgano all'antichità classica, interamente costruita con pietre di recupero provenienti dall'entroterra e dalla costa dalmata.
Al ritorno, percorriamo la route Lamartine, costellata di monumenti e paesaggi celebrati dal poeta romantico e uomo politico francese. Che noi italiani ricordiamo per un episodio di cronaca: il duello che Alphonse de Lamartine fu costretto a sostenere, nel 1826 a Firenze, con il patriota napoletano Pepe, per aver osato confrontare in versi il passato glorioso dell'Italia con l'odierna decadenza (Terre, où les fils n'ont plus le sang de leurs aïeux...).
Anche il centro di Mâcon, in cui arriviamo per comprare il gateau per la cena (l'Idéal Mâconnais), porta nei monumenti e nei toponimi la memoria di Lamartine. Con disappunto dei bambini, che vorrebbero almeno una strada dedicata a "Grisou" Griezmann, rivelazione degli ultimi europei.
Tornati a casa, ci mettiamo in cucina. Mi piace épater e régaler gli amici che ci ospitano, preparando pietanze semplici e buone. Il ragù, cotto a fuoco lento al mattino durante la lunga colazione a bordo piscina, è già pronto. Impastiamo e stendiamo la pasta per le tagliatelle con un matterello  di fortuna. Le tagliamo disponendole a nido sul piano in marmo cucina. Jean (il papà di Jeanne), smesse le vesti del cardiologo, si siede intanto al pianoforte a poi al clavicembalo ripassando la  melodia di Liszt che  gli è valsa il cuore della sua donna, bella come le filles du Nord des chansons de Brel.
Un tuffo nell'acqua bollente e sono pronte. A tavola finiamo per parlare solo di cibo, ma con un senso nuovo di vicinanza, che la cura amorevole nella preparazione ha creato. Questa sera beviamo il lambrusco che abbiamo portato. Niente a che vedere con lo Chassagne-Montrachet di ieri sera, ma sufficientemente dépaysant per i nostri ospiti.
Domani ripartiremo alla volta di Parigi, ma non prima di aver preparato un risotto alle fragole!



 


 
 

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