lunedì 18 luglio 2016

Dépaysement

"Ci sono donne con cui si sta bene, e altre che ti fanno uscire di senno: donne che, quando sono ormai scomparse da un pezzo, vengono a farti visita di notte, a minacciare il sonno, proprio come facevano in passato: scavando dentro di te una crepa per poi riempirla, minando senza ritegno l'immagine di sé che, per vivere, ognuno di noi deve ricostituire ogni mattina." (J.B. Pontalis, Loin).
"Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio" (Claudio Magris, L'infinito viaggiare).
Questi due incipit esprimono, a parti invertite, la poesia del dépaysement: ogni viaggio (ogni relazione importante) è un'esperienza di "spaesamento" e, insieme, una ricerca di "microcosmi" quotidiani. Ci sentiamo spaesati, disorientati, quando ci allontaniamo dalle nostre abitudini percettive: è la sensazione di smarrimento che proviamo quando ci perdiamo, magari perché abbiamo imboccato senza volerlo una fausse route. Ma dépaysement è anche l'estraniamento, il cambiamento positivo che cerchiamo ogni volta che usciamo o partiamo per prendere aria, per sentirci ailleurs, altrove rispetto alle contraintes, gli obblighi e i lacci della quotidianità. Le rêve éveillé, insomma, il sogno a occhi aperti. Ma anche, lontano dalle sirene turistiche e dai luoghi comuni, la scoperta fortuita di un luogo autentico, che ci somiglia.
Le dépaysement. Voyages en France è il libro di Jean-Christophe Bailly che ho messo in valigia, confidando nella sua promessa: le dépliement du paysage contre le repli d'un pays. Dispiegamento contro ripiegamento. Una sensazione che proviamo all'avvicinarsi della frontiera. Un confine naturale come il Monte Bianco, così massiccio e candido, impone un cambiamento di sguardo: ai bambini e a me. Essere saliti fino alla cima prima di attraversarlo in tunnel, aver goduto della luce accecante e dell'aria purissima prima di entrare nel buio con l'aria condizionata ci dà il senso, non anodino, del passaggio.
Il traffico ė fluido, annuncia un pannello luminoso. Già, perché nelle strade corriamo e scorriamo come il sangue nelle vene: la circolazione stradale, appunto, attraverso le arterie principali.
Il traffico ė fluido (non ci sono code) e ordinato, aggiungo. Perché le macchine fluiscono e
defluiscono seguendo le indicazioni. La velocità nel traforo ė necessariamente limitata. Ma c'è dell'altro: piccole luci blu segnalano l'intervallo ottimale per mantenere la distanza di sicurezza. Stiamo varcando una frontiera, in tutti i sensi.
Dall'altra parte il paesaggio è simile, ma vigono regole diverse. I veicoli rispettano naturalmente i limiti di velocità indicati, variabili a seconda dei tratti dai 90 ai 130. Capisco che, per fare meno fatica e non distrarmi seguendo i pannelli, mi basta guardare gli altri veicoli e adeguarmi. Jeanne, che ci accompagna (e che noi riaccompagniamo a casa), mi spiega che il sistema di controlli radar della velocità e la penalizzazione a punti hanno cambiato le abitudini di guida dei francesi. A sorpassare a velocità superiore a quella consentita sono solo macchine dalle targhe tedesche e svizzere: riconoscerle è il gioco che inventiamo sul momento per vincere la monotonia del viaggio.
Guardare il panorama dal finestrino, decifrare i segni intorno a sé, discuterne insieme è l'esercizio che ci imponiamo di fare quando viaggiamo in macchina. Più faticoso ma più gratificante che guardare piccoli schermi. Quando ci si stanca, è concesso leggere, fare parole crociate, giocare a carte, cantare,
dormire. Come negli anni 70.
Il cambio automatico e la velocità fissa, l'assenza di comportamenti scorretti (sorpassi azzardati, strombazzate e fari insistenti per liberare la corsia di sorpasso: tutto il repertorio di maleducazione autostradale cui siamo abituati) abbassano la mia soglia di concentrazione. Ci fermiamo in un'area di servizio attrezzata, cui si arriva dopo uno strano detour. Non c'è alcun caffè, ma servizi puliti, acqua freschissima e un grande parco ombreggiato. Il parcheggio è vuoto, eppure sento il bisogno irrefrenabile di mettere la macchina un po' di traverso, fuori dalle strisce. Un pallone, anche quando la macchina è stracarica, non manca mai. Così ci mettiamo a giocare a calcio, dimenticandoci per un po' della strada.
Quando ci rimettiamo in viaggio la nostra destinazione sembra vicina. "Je n'ai as pas peur de la route, faudra voir, faut qu'on y goute" - cantano i Noir Désir alla radio. Dopo il dipartimento Rhone-Alpes è la volta della Bresse (da cui arrivano i migliori polli del Paese). La nostra destinazione è Mâcon, ma usciamo dall'autostrada un po' prima del previsto per prendere la strada dipartimentale che attraversa la campagna e i paesi, la Francia profonda, la province, le terroir.   Arrivati alla Saône, altro confine naturale, scorgiamo la città, porta della Borgogna.

Attraversiamo il ponte e costeggiamo il lungofiume per poi allontanarci di nuovo verso la campagna, questa volta in direzione dei vigneti.
"Quanto manca?", "Quando arriviamo?" - nel nostro lessico familiare queste due domande corrispondono al numero 5 (1 = ho fame, 2 = ho sete ecc.). "Ancora dieci minuti" - dico, sperando che anche questa volta, come quando giocano, gli ultimi dieci minuti durino più del solito...
L'attesa è ripagata. Eccoci arrivati nella ferme di Jeanne, la ruelle au Verjus, un antico domaine viticole appartenuto al canonico della città, un riparo per i pellegrini in cammino verso Compostela.


 

 
 
 


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