domenica 24 luglio 2016

La pêche à la baleine

Ogni volta che salgo in macchina, mi sento risuonare tra scatola cranica e cielo — ma un cielo di convenzione come quelli dipinti sui teli dei teatri, o come quello vuoto su cui si muove la nuvoletta del marchand de sable che da me non passava mai —, ogni volta mi sento risuonare come un urlo, un monito, e come la voce irosa del padre nella poesia di Jacques Prévert che grida al figlio: À la pêche à la baleine! Un ordine, un'ingiunzione a cui il figlio si sottrae lagnoso nascondendosi sotto l’armadio. E, tirandosi decisamente indietro, ribatte che non capisce perché mai dovrebbe andare a pescare un animale che non gli ha fatto niente. Petizione di principio questa, a cui il lettore contemporaneo può solo aderire, senza bisogno di esser andato ad osservare i grandi cetacei nel loro ambiente naturale in un whale watching al largo di qualche terra esotica: ma può ancora l’Islanda essere considerata una terra esotica, dopo che abbiamo visto ai primi di luglio le strade di Parigi gremite di islandesi insolitamente estroversi, talvolta assatanati, che sbandieravano la loro cittadinanza come segno di appartenenza a un popolo eletto? Una volta, a Parigi, gli islandesi si riconoscevano al massimo per la loro insistenza a togliersi le scarpe quando ti entravano in casa, come costuma sulla loro isola, dove chi torna a casa proviene perlopiù da un ghiacciaio, dal cratere di un vulcano in eruzione, dal ponte di coperta di una baleniera o di un peschereccio, o dal Blue Lagoon. Abbiamo appena vissuto una svolta epocale, è evidente.
Ma non tanto epocale quanto quella subita nella poesia di Prévert dal figlio che, oltre a lasciare andare il padre da solo ad affrontare il leviatano, rifiuta ancora, al ritorno del genitore che si porta dietro una bella balena dagli occhi azzurri, di squartarla per servirgliela da mangiare. Il figlio butta per terra il coltello. E la balena, approfittandone, in un battibaleno pugnala il suo cacciatore, e lo infilza a mo’ di farfalla. Due volte il figlio rinnega il padre, e la seconda volta si fa artefice del suo assassinio: l’assassinio di quello che la balena pentita definisce subito un povero imbecille, nell’ambito di un'entomologia altrettanto povera.
Così mi sento, ogni volta che devo salire in macchina. Non come il padre infilzato da un coltello e pronto a dispiegare smaglianti quanto metaforiche ali, ma piuttosto come il figlio immorale, infame, disdicevole, che si ribella, che s’impenna, che dismette l’amor figliale e la solidarietà familiare, e che preferisce la quiete della casa alla grande avventura del difuori.
Eppure, quelle sconfinate distese che il mondo creato srotola all’infinito sono quanto ho di più caro, a patto di attraversarle con mezzi grandi, potenti, collettivi, nell’unione più o meno sudaticcia dei corpi, delle menti e degli interessi verso un traguardo comune che ci lega e ci associa brevemente. Pur di non dipendere da questo fragile quanto seducente guscio elettronico che senza remora l’estro del mercato associa ora alla genialità dell’artista, ora al fascino irresistibile della Dea. Varcare la soglia di casa, e non avere altra possibilità per muoversi nel mondo che la macchina, anche per comprarsi la baguette fresca e croustillante, tale è la maledizione del figlio del baleniere che, pur di evitare la macchina che è l’unico mezzo atto a portarlo fino all’attracco, si ribella all’autorità paterna. E così si sottrae spudoratamente al compimento del proprio destino, che avrebbe fatto senz’altro di lui un Ismaele, o un Achab. Una vergogna, quasi il giovane Bonaparte avesse rifiutato il comando dell’armata d’Italia per rimanersene ad Aiaccio a centellinare il mirto e giocare a briscola con i compagni di baldoria, intavolando interminabili smargiassate fino a notte fonda. Ma la battaglia d’Arcole? Ma Campoformio? Ma Jacopo Ortis? Ma la repubblica Cisalpina? Ma Il cinque maggio? Ma La Chartreuse de Parme? Niente. Un destino volgare. Un buco nell’acqua.
Eppure “il mondo è uno spazio infinito e fresco che inonda le cose di luce e le circonda di facilità”, scrive Bontempelli nell’esordio del romanzo che dedica nel 1932 alla macchina, e ad una in particolare, la 522 Fiat, che l’azienda torinese gli regalò a sugello del patto: Bontempelli era un eterno squattrinato. E in questo mondo reale e magico, quante città sfolgorano e rilucono, quante strade solcano grasse campagne e ombrose valli, quanti fiumi sgorgano e scorrono sotto la luce meridiana, quanti alberi cresciuti a branchi disordinati, o secondo una disposizione regolare. Quante nature in questo mondo. E quante città. E tra queste, di qua Paris, di là Bruxelles.
En voiture, donc!

Questo pezzo non l'ho scritto io. È il tema d'esame che mi ha consegnato François prima di salire sulla nostra macchina. Scritto in ottimo italiano. Ci accompagnerà per il prossimo tragitto.
On y va!

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