mercoledì 13 luglio 2016

Donna al volante

Il mito dell'automobile nasce all'esterno delle pareti domestiche. Se la velocità è l'emblema dell'estraneità a ogni fine pratico, il prestigio della carrozzeria e la potenza del motore rimandano a un sistema di attese lontano dalla sfera tradizionale del femminile, fatta di incombenze pratiche, responsabilità immediate, cura e attenzione pazienti. Un'automobile è fatta pour t'emporter, per portarti via dall'universo domestico (rispetto al quale è "eccentrica e complementare" - nelle parole di Jean Baudrillard), e come tale elettivamente maschile nel senso comune. Del resto, già nella mitologia greca, a Estia (che simboleggia il focolare domestico) si opponeva Hermes (dio delle soglie e dei crocevia).
Gli stereotipi linguistici, fissati in proverbi come il noto "donna al volante" (che ognuno di noi è in grado di completare, talmente è inscritto nei nostri riflessi di parlanti, nonostante sia contrario al buon senso - come ben sa ogni assicuratore), ci ricordano la sanzione sociale che colpisce la donna che voglia varcare il limite invisibile del foyer.
Per mia nonna, nata negli anni 20 e sempre vissuta in campagna, avere la patente era (sarebbe stata) una garanzia non tanto di libertà, ma di mobilità autonoma. Per mia mamma, nata nel secondo dopoguerra e giovane negli anni 60, quando era diventato normale per una donna prendere la patente e godere di una certa libertà di movimento, è importante avere una macchina propria (sia pure un'utilitaria). La fedeltà ai ruoli tradizionali ammette l'uso della macchina per le necessità della  famiglia, ma nel rispetto dei limiti di velocità. Perché la velocità è un piacere che ci porta lontano dalle abitudini, ci mette in un pericoloso stato di euforia, di superamento dei confini abituali di spazio e di tempo...
"Sì, viaggiare" - come cantava Lucio Battisti. "Una sgommata e via" - come canta Paola Turci.

Oggi il limite al piacere della guida è posto, senza distinzione di genere, essenzialmente dal traffico. Per eludere la fatica, la frustrazione, la perdita di tempo, si preferisce rinunciare all'auto per gli spostamenti quotidiani: per i bourgeois bohémien, i trenta/quarantenni che condizionano sempre più la politica delle città europee (all'insegna della gentrificazione, della pedonalizzazione e della ciclabilità), l'auto è un accessorio da non esibire ma da nascondere, un bene che non è necessario possedere, ma che è sufficiente poter usare all'occorrenza, magari condividendo grazie alla formula del car-sharing.
La macchina che guido non è mia, ma l'ho scelta io per questo viaggio. Sulla base di circostanze fortuite e di valutazioni personali. Coniugando bisogni pratici e sensibilità estetica. Senza escludere la possibilità di una proiezione narcisistica, ma temporanea, come in un gioco. Del resto non ho deciso io il colore della carrozzeria, né gli interni o il tipo di cambio. Intuisco però che la possibilità di personalizzazione, in grado di dare un'impronta individuale a un oggetto prodotto in serie (e ormai alla portata di tutti), parla proprio a questa parte di noi consumatori (e consumatrici), giovani negli anni 80 del secolo scorso, sempre in cerca di oggetti con cui identificarci.
Ma il motivo per cui ho scelto di andare in macchina questa volta, senza preoccuparmi troppo delle emissioni, è un altro: è la voglia di affidarmi all'improvvisazione, di riscoprire la dimensione festiva ed eccezionale che i miei nonni associavano a questo mezzo, ritratto e celebrato nelle foto di famiglia. La volontà di ritrovare la poesia dello "spaesamento".




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